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NEW YORK DOLLS – Bologna, 14/10/06

Dal CBGB all’Estragon. Direttamente dagli anni 70 i NEW YORK DOLLS (o ciò che resta di loro) per la prima volta in Italia. Potevamo mancare?

di Piero Merola

I New York Dolls non erano mai venuti in Italia. E già questo basterebbe a dare l’idea dell’evento. In realtà ci sono venuti sparsi, tra gli anni ottanta e i novanta, da solisti o in progetti più o meno figli e paralleli. Ma mai da veri New York Dolls, quando alla chitarra c’era l’icona Johnny Thunders. Trentadue anni dopo, tre lunghi decenni dopo fatti di stili, tendenze, rivoluzioni e controrivoluzioni musicali che loro hanno certamente influenzato soprattutto dal punto di vista estetico e iconografico, torna alla ribalta il leggendario carrozzone glam, malconcio ma autenticamente meritevole di tale aggettivo, per un’unica, imperdibile data italiana. Un evento quasi di nicchia come dimostra la location, un club relativamente piccolo, l’Estragon, gremito senza difficoltà già durante l’esibizione dei THEE STP, rock’n’roll band italiana altrettanto di nicchia che regge bene per due-tre canzoni, almeno finché l’esuberante, ma validissimo, frontman non decide di strafare con quelle movenze da hard-rocker d’annata che sono l’ultima cosa a cui avrei intenzione di assistere stasera.
Mentre noi siamo qui, dall’altra parte dell’oceano il CBGB celebra mestamente la sua ultima serata con Blondie. E stare qui è un po’ come provare a entrare in una macchina del tempo per rivivere i fasti dell’epoca. Non è facile, quando sbuca fuori un Sylvain Sylvain, nascosto da un cappello quasi glam, che sembra il nonno poco glam di Sylvain Sylvain. E quando il pur magrissimo David Johanssen fa capolino con passo incerto, attillatissimo, agghindato di tutto punto nei suoi pantaloni a zampa, con immancabile collana e cinturone di pelle, fa quasi tenerezza. Lui è autenticamente glam, negli abbinamenti e nell’incedere. Completano il quadro i più “giovani”. Il preciso Sami Yaffa, il martellante batterista Brian Delaney e l’istrionico Steve Conte, coraggiosa via di mezzo tra il vecchio Thunders e Keith Richards, il più glam di tutti, come da lezione dei maestri che gli sono accanto. Quello che conta è lo spirito rock’n’roll e basta un riff per spegnere questa nostalgia mista a tenerezza. “Looking for a kiss”. Il tamarrissimo bacio microfonato finale è un bel momento per tutti. I fedelissimi inlustrinati di mezza età nonostante le zeppe ripescate dalle soffitte saltano più dei miei coetanei punkettoni. Potremmo essere loro figli. Ho paura. Mi tengo a distanza.

Giusto perché ci si ricordi persino dell’ultimo album “One day it will please us to remember even this” (occhio alla parafrasi), uscito di recente, ci propinano i brani più riusciti. Dalla straripante “We’re all in love” alla spassosa “Dance like a monkey” (pericoloso circolo vizioso NyDolls-Aerosmith-Guns n’Roses) passando per il blues zoppicante di “Runnin’around”. Da ricordare l’elogio alla memoria di Thunders (e dell’altro membro scomparso, Jerry Nolan) scandito da un commosso Sylvain e l’altrettanto emozionante cover di “Piece of heart” di Janis Joplin. Intanto, con una frequenza che nei gloriosi 70’s i più puritani avrebbero definito irrisoria, vola qualche reggiseno sul palco. David sembra non darci troppo peso. Sceneggiate a parte, a farci felici arrivano i pezzi forti del primo glorioso album d’esordio. Il punk prima del punk dell’insuperabile “Trash” che, a dispetto della relativa austerità della band, nelle prime file, invece, è un tripudio di capelli cotonati svolazzanti nel confuso, ma moderato pogo (pogo che ai loro tempi neanche esisteva oltre che come definizione, anche come pratica). Altro momento topico il cattivissimo rock-blues di “Pills” preludio all’immancabile “Jet-boy”. Un brivido lungo la schiena. Nostalgia. Tanta nostalgia. Nonostante le rughe e il fiato corto c’è spazio per il bis. Mentre un convinto e generalizzato coro “New-Yor’-Dolls, New-Yor’-Dolls” accoglie le rugose bambole newyorkesi nel nuovo ingresso in scena, si leva quel riff a cui questa sera nessuno, per nessun motivo al mondo, avrebbe voluto mai e poi mai rinunciare. “Personality crisis”. L’inno di uno dei filoni più controversi e marci della storia del rock’n’roll. Gli urlacci di un sorprendente Johanssen incitano il variegato (non è un eufemismo) pubblico di questo sabato bolognese diverso dal solito. Impossibile non urlare. E’ il momento clou della serata. Che fa passare inosservato il secondo bis, la secca e prorompente “Get away from Tommy”, con tanto di finale prolungato scatenatissimo, suonata così pulito da farli sembrare un normale gruppo rock.
Un giorno sarebbe di loro gradimento che ci si ricordasse persino di questo.
A noi, dopo tutto, non costa niente.
Piero Merola

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