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Sigur Ros – Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust

2008 - Emi
acoustic sigur-ros

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Tracklist

1. Gobbledigook
2. Inní mér syngur vitleysingur
3. Góðan daginn
4. Við spilum endalaust
5. Festival
6. Með suð í eyrum
7. Ára bátur
8. Illgresi
9. Fljótavík
10. Straumnes
11. All alright

TASTE
Fljótavík
All Alright

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Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito. Questa la traduzione dell’impronunciabile Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust, e questo il quinto album dei Sigur Ros. Per la prima volta fuori dall’Islanda, il disco è stato prodotto da Flood e dalla band stessa, e registrato tra l’Havana, New York (Sear Sound Studios), Londra (Assault and Battery Studios ed Abbey Road) e Reykjavik (in una chiesa e ad Alafoss, lo studio del gruppo). Se da un lato è naturale prosecuzione del precedente Heima (documentario del tour islandese), vista anche l’attitudine nomade di cui si parlava prima, dall’altro rincara la dose sulla ricerca di una frizzante freschezza che fino a ieri non era di sicuro il marchio di fabbrica di questi folletti. E ne ritrova la chiave nel Dna acustico.
Gobbledigook è tutta un incedere tribale di tamburi, cori, voci spigliate e chitarre acustiche. Ti spiazza. La base ritmica che si intinge di claps vorrebbe quasi annunciarti un prossimo rito sacrificale. Inni mer syngur vitleysingur (dentro di me canta un lunatico) è ancora ritmata, lo sfondo ha venature folk e gli archi vanno a stringere la linea vocale decisa e sorridente. La finestra della tristezza sembra volersi riaprire nello stridere delle corde di Góðan Daginn per poi richiudersi al ritmo del basso calcato in Við Spilum Endalaust.
I 9 minuti di Festival riportano indietro i Sigur Ros, quelli degli accenni vocali, dei cori che lentamente si elevano e del finale esplosivo. Quelli che fanno del piano una priorità in Suð Í Eyrum. Non quelli docili di Ára Bátur(barca rumorosa), registrata in ripresa unica insieme al London Oratory Boy’s Choir e alla London Sinfonietta per un totale di 90 elementi che interpretano il pezzo all’unisono. Qui ogni tassello è flebile e l’attitudine è palesemente melanconica.
La dreaming voice di Jon “Jonsi” Thor Birgisson ed il pianoforte di Kjartan Sveinsson sono prepotentemente più in luce che mai nella parte conclusiva dell’album. Continuano ad accarezzarsi in Fljótavík fra archi celestiali ed un mellotron presente qui per la prima volta. Fanno l’amore nella finale All Alright. Di nuovo i singoli accenni delle note di piano come principi di gocce di pioggia sono a far da collante e, spesso storpiate queste, vanno a sospendersi tra le nuvole dorate dello strozzato sforzo vocale. La ricerca dell’imperfezione la rende la perla del disco, totalmente pensato, scritto, registrato e prodotto nei primi mesi del 2008 e dato alle stampe a pochissime settimane dal suo completamento. Per la prima volta una lirica è in inglese (la conclusiva), e l’islandese è usato al posto dell'”hopelandic”.
Un riflesso di una freschezza giovanile che si tasta molto nel suono e nella scelta interpretativa. I riverberi, le dita che sfiorano gli strumenti, le riprese live. L’alternarsi continuo di momenti più gioiosi che mai nella prima parte per un finale più classicamente e fragilmente Sigur Ros. Dopo i fasti di “Ágætis Byrjun”, “( )” e”Takk…” siamo di fronte al più immediato e popolare lavoro della band islandese. E se non è imperativo categorico ricercare il genio ad ogni giro, naturale è assistere all’evoluzione.

Quando poi la costante è magica voluttà il resto conta poco.

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