Ennesimo bagno mediatico ingiustificato o meritata escalation alle chart? Il self-titled dei The Drums prova a dare un verdetto su questo quesito, facendo chiarezza e decidendo se collocarli tra i fenomeni modaioli di durata piuttosto ridicola (un disco, al solito), coccolati da Pitchfork, NME e quant’altro, oppure se dargli dignità di fenomeno destinato a continuare.
Il prodotto è essenzialmente buono, anche se prodotto in una maniera piuttosto spoglia e quasi vintage. Punto a suo favore. L’aria che si respira è quella di un indie pop piuttosto party-oriented, dall’atmosfera gaia e ballabile, ma corredato della solita timbrica vocale iperdepressa come ogni band di questo tipo si diverte a riprodurre, e senza mancare della classica devozione al post-punk anni ’80 e ’90 diventato ormai irrinunciabile humus per ogni nuova band che si voglia (auto)definire indie. Il pezzo più celebre, “Let’s Go Surfing”, suona molto di Beach Boys reinterpretati dai Joy Division o dagli Interpol, e nonostante questo riesce ad essere un pezzo spensierato e vagamente adatto per un dj set post-concerto, di quelli che ormai si è soliti fare per tentare di convincere la gente a non abbandonare i locali uccidendo tutti con gli esageratissimi prezzi delle consumazioni. Lo stesso accade in “Book of Stories”, con i suoi arpeggi più fedeli al pop anni ’60, sempre di matrice britannica, però con un occhio di riguardo al surf e alle feste studentesche da telefilm. Sicuramente non brillano per inventiva od originalità, andandosi ad innestare in un canale già battuto e ribattuto da decine di band, come i validi ma comunque poco freschi We Have Band, anche se a volte interpretato in maniera decisamente ben studiata (ad esempio in “I’ll Never Drop My Sword”, con tutti i suoi connotati new wave che, comunque, alla lunga, stancano).
Un altro brano abbastanza danzereccio e, nel contesto disco, considerabile tra i migliori, è l’opener “Best Friend”, dove il cantato ricorda vagamente i primi successi dei The Smiths, ma senza esagerare. Per il resto i pezzi sono tutti molto simili a quelli già citati, o comunque fungono da filler per sopperire a questa mancanza di ispirazione che è comunque onnipresente e necessita di (palesi)diversivi.
Di per sé sarebbe riduttivo parlare di brutto disco, perché di canzoni “brutte” non ce ne sono. Il problema vero e proprio è l’assenza di un motivo per spenderci soldi o tempo, dopo che milioni di band hanno già fatto la loro parte per portare nelle nostre case questo genere in tutte le sue più improbabili declinazioni. Una produzione “antiquata” e un buon uso delle chitarre e degli strumenti del comparto ritmico risollevano l’andazzo del disco, giovando in particolar modo alla sua intrinseca volontà festaiola a volte spezzata dall’incuria dark e new wave, e sicuramente la sufficienza la merita, seppur con qualche riserva. Un disco interessante solo per i superfanatici dell’indie-qualunque e da evitare se non si vuole bestemmiare di fronte all’improponibile ripetersi di questi cliché. Sgraziati, banali, ma accettabili.