L’approdo allo Scalo San Donato (una sorta di affascinante centro sociale abbellito dalla dicitura “Cantiere Culturale”) ha un sapore quasi epico ed evocativo, vuoi per la miniodissea burocratica-logistica che, dal Locomotiv, ha spostato fin qui il concerto, vuoi per quello che dopo tutto potrebbe significare il concerto stesso.
É la musica dei Red Sparowes, è il primo freddo d’Italia, di Bologna, degli spiriti che si congelano e non si stupiscono già più del potenziale ormai non più stupefacente del post-rock, il rock che vent’anni fa osarono definire del futuro e che oggi, in un crogiuolo di anemiche crisi esistenziali, si limita a sopravvivere adagiandosi sugli allori dei soliti noti.
L’ultimo disco dei Pelican, gli ormai furono Isis, certi scivoloni di loro maestà Mogwai, i nostri Giardini Di Mirò, tutti insieme, in dosi diverse, nel comune e incorreggibile vizio di continuare a guardare l’universo dal basso verso il basso, a mascherare la muffa con piccoli aggiustamenti di rotta che suonano tanto come un triste compromesso con se stessi per evitare di guardare dritta negli occhi l’inevitabile vecchiaia.
La paura è straziante, ma al suo interno giace la risposta.
I Red Sparowes salgono sul minuscolo, quasi inesistente, palco e nell’aria il timore che si sparge è sempre lo stesso che suscita ogni uscita con il -post davanti: che la musica, strumentale o non, così romantica e così estrema, non sia poi in grado effettivamente di interloquire, comunicare, affascinare e ammaliare come si vorrebbe.
I video proiettati alle loro spalle, un mix di scene naturali e apocalittiche al tempo stesso, trasudano la standardizzazione che si vorrebbe provare a negare con le armi più classiche e più forti, le note e gli strumenti.
Colpiscono senza sbavature, tra arpeggi decadenti, una sorprendente steel guitar, una batteria forse troppo minimale e un basso positivamente sopra le righe.
Mettono in piedi una struttura inattaccabile, senza giri a vuoto, convincente in ogni pezzo e in ogni passaggio, perfetta per intensità, coinvolgimento emozionale e stile.
Appunto, lo stile, che è sempre lo stesso, proposto, descritto, ri-proposto e brevettato da due decenni ormai, senza sostanziali colpi di genio o audaci azzardi.
Cose che dai Red Sparowes, da interpreti del genere, sarebbe in fondo legittimo aspettarsi.
A volte la sensazione è che la rivoluzione stia arrivando, in ogni momento e sotto forma di deflagrazione cacofonica dopo un mare di sorprendenti slide tanto belli quanto semplici (“In Every Mind”, le cose più semplici e istintive sono le più belle). Un urlo liberatorio a voler dire che sì, i Red Sparowes possono essere davvero più post del post, possono essere davvero il futuro che si immaginavano 20 anni fa.
A volte invece, sembra di aspettarla da sempre e per sempre, nel guardarli compiacersi e giochicchiare con i feedback sulla strada dell’equilibrio, senza mai rischiare il colpo definitivo, quello del trionfo che non arriva mai.
In poche parole, la fotografia del post-rock.
La fotografia dei Red Sparowes, alla fine della serata, quando le giunture e le articolazioni fanno male per tanto immobilismo, è quella di un gruppo di secchioni che potrebbero essere geni per davvero, ma che hanno deciso di adeguarsi e livellare la loro proposta alla solita vecchia, bella e funzionale medietà.
La paura è straziante. La paura di rischiare e di fallire è sempre più forte di quella di cadere nel girone degli ignavi.
a cura di Fabio Gallato