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Kings Of Leon – Come Around Sundown

2010 - RCA
rock/alternative

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Tracklist

1. The End
2. Radioactive
3. Pyro
4. Mary
5. The Face
6. The Immortals
7. Back Down South
8. Beach Side
9. No Money
10. Pony Up
11. Birthday
12. Mi Amigo
13. Pickup Truck

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I Kings Of Leon hanno già compiuto undici anni di attività. Eppure le prime grida delle ragazzine sono arrivate poco tempo fa, e ancora ci rimbombano nelle orecchie con la tipica noia che provoca sapere che la musica è sempre più ridotta, grazie ai meccanismi che la TV e il web hanno contributo a creare e a far maturare, amplificandoli all’inverosimile, ad eccitazione sessuale ed esaltazione dell’immagine. Non è certo la pop-star imprenditrice Beyoncé Knowles a calcare il palco quando entrano i Followill, ma questi fratelli e relativi cugini hanno già fatto capire quanto la loro “carica erotica” per il pubblico femminile sia efficace. Nonostante questo non hanno fatto la fine dei Green Day del truccatissimo Billie Joe, o dei morti e sepolti My Chemical Romance, o di tanti altri, perchè la qualità musicale, in questo disco come in tutti gli altri è notevole. Provenienti da un panorama pregno di southern rock, per questo motivo devoti al blues come pochi altri stiano facendo ultimamente nel mainstream, hanno stravolto le carte inizialmente messe in tavola per raggiungere una soluzione più melodica e più congeniale al ruolo di rockstar immerse nel pop, con tutto ciò che questo comporta.

Lasciando stare, quindi, tutto quello che non è prettamente musica, compresa la loro sbruffonaggine che me li ha fatti odiare in più di qualche intervista (soprattutto quella recente su XL), entriamo nei meriti di questo quinto full-length, che lascia il segno quasi come gli altri. Dicasi “quasi” per evitare di farlo sembrare “il migliore”, perchè così non è. Come molti artisti sono andati scalando, senza comunque mai deludere, rimanendo sempre attaccati ad un fascio di innovazione fascinoso ed intrigante. Lo dimostra anche il primo singolo, “Radioactive”, la cui attitudine pop maschera la loro voglia di divertirsi ai concerti, rimanendo sulla cresta dell’onda ma tradendo le aspettative di chi implorava a gran voce una nuova “Use Somebody”, insomma quel pop/rock scadente ma di grande qualità che aveva, a un certo punto, rotto anche le palle. Diciamocelo. Conferma lo stesso principio anche “Pyro”, con una struttura semplice ma d’impatto, adatta a quel ruolo di “band da stadio” che gli si sta cucendo addosso con un bel po’ di faccia tosta. Perchè, avanti, non sono mica i Muse, né gli U2, né i Depeche Mode, nonostante ne ereditino le forme migliori di rapporto con il pubblico. Tipo ufficio, si.

In ogni canzone si nota come siano una band dal percorso semplice e manifesto di una vita che è toccata a molti. Provenienti da un universo chiuso, cioè quello del sud rurale, portano il sound della loro musica tradizionale dritto dritto al successo passando per la porta del cosmopolitismo che se li è mangiati e coccolati. E canzoni come “Back Down South” e “Mary” lo attestano nella maniera più evidente. Per astrazione, possiamo anche arrivare a dire che qui si parla di un revival completo di emozioni evocate solo dai vecchi cantautori degli anni cinquanta e sessanta, sempre sudisti, s’ intende, e dai canti dei neri d’America che proprio in questi stati hanno sofferto tanto. Poi dritti in pezzi come “No Money” dove, con la semplicità di cui tutto Come Around Sundown è pieno, ci dimostrano che non si smette mai di migliorare né nel suonare, né nel comporre: il ritmo sostenuto è quello che più di tutti piace ai KoL per questo disco. Sarà che finora erano sempre stati abbastanza quadrati, abbastanza lineari, soprattutto nelle rese live, ma sembra che la formula vincente per C.A.S. sia la velocità incalzante di alcuni brani che, come questo, diventeranno tormentoni per i concerti.
La voce calda del frontman riesce a rendere al meglio in quasi tutti i brani, sia quando si tratta di piegarsi a soluzioni più melodiche che ai momenti più graffianti, dove comunque rimane sempre ancorato al suo stile piuttosto “ristretto”, ma non per questo fallimentare nell’aggiustare anche situazioni come “The Face”, tra le canzoni-riempitivo ma che grazie ad una buona interpretazione riesce ad essere un ulteriore motivo di gloria per un ottimo album.

Non sono i canti gospel a sollevare le sorti di questo disco, né l’irritante riconoscibilità ed orecchiabilità di ogni singolo riff e di ogni singola linea vocale. E’ un songwriting preciso, curato, pulito, supportato da una produzione pregiatissima, in linea con la loro carriera ma anche a passo coi tempi, pop fino ad incrociare il tragitto del rock, rock fino a spremere fin troppo le distorsioni che, in salsa piuttosto “neomelodica” (e nel senso meno negativo che questo termine può esprimere), si portano via tutto l’intero disco. La sensibilità estrema con cui ogni tassello viene dosato ed incastrato nel punto giusto, dà la giusta dimensione ad un album completo ed incredibilmente “funzionante”. Lo so, lo so, sono un uomo di poche parole.

Al numero cinque, con un nome ed una fama così, non potevano fare di meglio.

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