Il gentleman del glam-rock anni settanta, torna a distanza di ben quattro anni dall’ultima incisione, quel “Dylanesque”, album in cui reinterpretava a modo suo i classici di Dylan.
Questo è un ritorno che, chiariamo subito, non aggiunge nulla alla quarantennale carriera di Ferry, ma che certamente lascia la voglia di riascoltare i dieci avvolgenti brani alla fine dell’ultima canzone. Il pop raffinato di Ferry è camaleontico e segue l’indirizzo che i numerosi ospiti riescono a dare ai pezzi, rimanendo sempre e comunque in linea con l’eleganza del compositore britannico. Ecco se proprio bisogna trovare un difetto, manca quel guizzo in grado di spezzare la romantica e kitsch linea guida.
Ferry non viene meno al glamour, che ne ha contraddistinto la carriera fin dai tempi dei Roxy Music, già dalla copertina dove il volto-icona di Kate Moss rappresenta e incarna, a detta dello stesso Ferry, i due volti della nostra epoca, eleganza e fascino da una parte e la trasgressività e la pericolosità dei nostri giorni dall’altra.
L’album è un concentrato di raffinato e languido pop che sa mischiare le ritmiche degli anni ottanta con il basso rock di Flea nell’apertura di You Can Dance o integrare la chitarra di David Gilmour in Me oh My e nella cover di Tim Buckley, Song to the Siren, la quale rivede riuniti, anche, tutti insieme i componenti dei primissimi Roxy Music (Eno, Manzanera e Mackay). Ferry non gioca al risparmio con le ospitate e accanto ai vecchietti, cerca di affiancare artisti dell’ultimo decennio, riuscendoci alla grande in Shameless, dove si confronta con l’elettronica dei Groove Armada, ottenendo un risultato più che buono o avvalendosi dell’aiuto di componenti di Radiohead e Scissor Sisters.
Insomma, tanta carne al fuoco da parte dell’unico vero dandy del pop che sfrutta i numerosi ospiti per il suo nuovo rientro, con l’unico rammarico , visto i nomi, che si poteva ottenere un qualcosa in più di un disco di gran mestiere.