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Interviste

Intervista agli ANAMANAGUCHI

Zelda al Basso, Megaman alla Batteria

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New York, un van si ferma in una piccola traversa di Chinatown. Dalla macchina scendono quattro ragazzi, tirano fuori un amplificatore, lo mettono sul tetto e incominciano a suonare. Chitarre, basso, batteria. E un Game Boy modificato. Un’esibizione del genere ovviamente non può non catturare l’attenzione dei passanti. Loro sono gli Anamanaguchi – ardita crasi tra Armani, Prada e Gucci – una band di giovani newyorchesi (formata dal compositore Peter Berkman, il bassista James DeVito, il chitarrista Ary Warnaar e il batterista Luke Silas) che si ispira al pop-rock leggero di Weezer, Unicorns, Beach Boys e all’8-bit di The Legend of Zelda, Megaman e molte altre cartucce con cui sono cresciute almeno due generazioni.

Suonare con NES del 1985 e Game Boy del 1989 hackati potrebbe sembrare l’apice del nerdismo, il suo punto di non ritorno (e probabilmente lo è), ma in realtà, ad un ascolto un attimo più approfondito, si tratta di sperimentare ed esplorare nuove sonorità nell’ambito chiptune (ovvero sintetizzazione di brani in tempo reale mediante i chip di console o computer), è prendere il suono che fa lo sprite ?di Super Mario quando mangia un fungo, i videogiochi di fine anni ’80 e costruirci attorno architetture sonore e cascate di accordi à-la-Iron Maiden. “Devi letteralmente comporre il sound dal nulla – dice un membro della band – la cosa divertente della sintetizzazione è che crei davvero il tuo suono. Se non fai così, viene uno schifo”.

Per quanto sia assurdo l’accostamento tra rock e Nintendo, gli Anamanaguchi finora hanno prodotto l’Ep “Power Supply” (2006), l’Lp “Dawn Metropolis” (2009) e composto la colonna sonora del videogioco “Scott Pilgrim vs. The World: The Game” (2010), oltre ad essersi esibiti dal vivo in diverse occasioni, sebbene i problemi e gli imprevisti derivanti dall’utilizzo di hardware più vecchi degli stessi musicisti siano sempre dietro l’angolo.

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La musica degli Anamanaguchi, da loro definita come “Mario che organizza un rave-core-lofi-tronica sotto acido”, è iperattiva, melodica, energica, positiva, con un ritmo frenetico che assomiglia a quello dei giapponesi Polysics. È principalmente musica elettronica, ma piena di esperienze e sentimenti umani; ed infatti la componente più forte è quella della nostalgia. Nostalgia, sostantivo etimologicamente composto dal greco nòstos, ritorno al paese di nascita e d’appartenenza, e dal latino algia (algos), dolore, tristezza – un dolce e melanconico formicolio che attanaglia il cuore, delicato ma molto più potente della memoria, che ti porta avanti, e indietro, e intorno, e di nuovo a casa, nel tuo salotto, nella tua cameretta da adolescente, in un posto in cui sai di essere amato e al sicuro.

L’avvento di Internet, è innegabile, ha permesso a band così strane e assurde di esistere e ricevere molta più attenzione rispetto al normale circuito di distribuzione/recensione. Ma ovviamente non è solo questo. È soprattutto la presenza di un pubblico trasversale che, oltre ad emulare le vecchie console sui propri PC (e finalmente finire i vecchi cabinati senza dover spendere un capitale in gettoni), vuole rivivere quelle esperienze e tornare in quell’epoca intima e personalissima, sognare e tuffarsi nuovamente in mondi e avventure in 8/16-bit. Il tutto senza soffrire, anzi divertendosi, ma con la matura consapevolezza di essere diventati irrimediabilmente grandi.

L’intervista

Ha risposto alle nostre domande Luke Silas (L.), il batterista della band

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Siamo una generazione cresciuta con i videogiochi e i loro suoni – cose che rimandano inevitabilmente all’infanzia, alla spensieratezza e anche alla nostalgia. Nel comporre la vostra musica, questi suoni sono stati la più grande fonte di ispirazione?

L.: Per quanto ci sia molto da attingere dai videogiochi, non direi che questi, quando ci mettiamo a comporre, siano la nostra più grande ispirazione. Le nostre canzoni si rifanno più alle band che ci piacciono che ai videogiochi: più Weezer che Contra, per intenderci. Dal punto di vista della programmazione, però, c’è un sacco di ispirazione che deriva dall’ascoltare gente come Tim Follin e giochi come Shatterhand, e dall’imparare i loro trucchi. In questo senso, è molto simile all’ascoltare un chitarrista formidabile e imparare i suoi lick così da poter migliorare la propria capacità musicale.

I videogiochi non sono ancora presi sul serio dal mondo accademico e culturale. Pensate che mescolare le chitarre con i Game Boy prima o poi permetterà alla vostra musica di essere presa sul serio?

L.: Avere una vera e propria band ci aiuta ad essere più accessibili al pubblico; normalmente la gente è molto più ricettiva ad una chitarra che ad un sintetizzatore. Il punto è che fare chip music ti fa ricadere piuttosto facilmente nel cliché. Un nostro chiaro obiettivo è quello di stare alla larga dall’essere considerati una band-feticcio, cioè dimostrare che non siamo solo una “Nintendo band”. E fino ad ora pensiamo di aver fatto un buon lavoro.

Vi sentite limitati nel lavorare con hardware obsoleti come le vecchie console?

L.: C’è una forte limitazione in quello che possiamo scrivere e suonare, ma per certi versi, è proprio questo il punto! Comporre con un NES o un Game Boy è una sfida molto divertente. Siccome hai solo pochi canali su cui lavorare (5-8 sul NES, 4 sul Game Boy), devi impegnarti moltissimo per arrivare al tuo obiettivo restando in un ambito sonoro così ristretto. Come ho detto prima, ascoltarsi i vecchi e geniali compositori del NES è utilissimo. Imparare cose come l’economia dei canali e l’emulare gli effetti fa compiere un salto di qualità alla tua abilità di programmare.

La musica chiptune è in giro da parecchi anni, e nonostante questo è ancora percepita come qualcosa di nuovo. È perché in fondo si tratta di roba da nerd?

L.: È difficile dare una singola risposta sul perché la chip music sia stata approfondita così poco dai media, ma non è per nulla ignorata. Ci sono state molte canzoni famose e remix che hanno usato pezzi di chip music o che sono state scritte direttamente come tali. Il vero problema è che la materia è spesso trattata con un senso di novità proprio quando cerca di presentarsi come “seria”. Questa etichetta è certamente dovuta al fatto che, come dici tu, rimane roba da nerd. Ma non appena un gruppo di artisti riesce in qualche modo a mostrare quanto rilevante e grandioso può essere il mezzo, da quel momento in poi può essere percepito come qualcosa che ha una certa storia alle spalle.

Quasi tutte le sottoculture musicali hanno (o hanno avuto) un posizionamento geografico – il krautrock, ad esempio, è nato e si è sviluppato nella Germania dell’Ovest. Ma le cose sono diverse, quando si ha a che fare con la scena musicale 8-bit: il suo spazio è virtuale, non topografico. Senza Internet, voi e altre band esistereste?

L.: Si può dire tranquillamente che l’intera cultura chip music non esisterebbe senza internet. Senza quella connessione, la “scena” sarebbe formata da un paio di tizi svedesi che smanettano con vecchi Nintendo, rinchiusi nel loro seminterrato. Ovviamente, in tutto il mondo ci sono città che fungono da grandi hub per la chip music (New York, Stoccolma, Tokyo), ma senza la rete sarebbero totalmente isolate l’una dall’altra, e molte scene locali neanche esisterebbero.

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Nel 1972, Umberto Eco ha parlato di “guerriglia semiotica”, che in pratica è l’atto di giustapporre in maniera sovversiva vari significanti – ad esempio, suonare un NES hackato del 1985 durante un concerto. Il musicista 8-bit David Sugar ha detto: “Quello che mi interessa è che il Game Boy è un enorme icona capitalista…è un po’ il pinnacolo del mondo consumistico, visto che non ha altra funzione all’infuori del divertimento. Si tratta di puro consumismo”. Vi considerate in qualche modo dei musicisti che fanno “guerriglia”?

L.: Direi che nelle nostre intenzioni non siamo più sovversivi della maggior parte degli artisti 8-bit, e questo vuol dire che non siamo per nulla sovversivi! Tuttavia stiamo cercando di dire qualcosa, consciamente o meno. Noi abbracciamo totalmente il rigetto delle canzoni semplici e dei suoni predefiniti che ci sono nella musica odierna, e credo che il nostro uso dell’hardware potrebbe ben simbolizzare questo rifiuto. Semmai, il nostro approccio è più incentrato sulla musica stessa che su un incredibile, radicale piagnisteo politico.

In un’altra intervista avete detto che “la musica 8-bit è senza alcun dubbio il punk dell’elettronica”. Ce lo spiegate?

L.: Be’, prima di tutto dobbiamo ricordarci che la stragrande maggioranza dei musicisti chiptune sono degli anarchici duri e puri che non avranno mai pace finché il sistema non sarà stato disintegrato. A parte gli scherzi, ci sono una marea di paralleli. L’intera etica punk del DIY si riversa nella chip music; entrambe le scene sono comunità di persone che la pensano similmente andando contro i metodi tradizionali di fare e pubblicare musica. Gli artisti registrano la musica che vogliono suonare, che siano o meno “musicisti che hanno studiato”, e la rilasciano alle loro condizioni, in forma di 12” o download gratuito. Inoltre, quella filosofia del do-it-yourself si riversa proprio nell’hardware che viene usato. La riappropriazione, l’uso e la modificazione di questo hardware per fare musica è quanto di più DIY ci possa essere. Se la gente una volta si faceva i propri skateboard ascoltando i pezzi dei The Clash, ora le persone si ritrovano nei loro salotti per ascoltare Nullsleep.

Come la scena punk, anche la scena chiptune è molto unita, e ha la tendenza ad essere insulare (nel bene e nel male). La scena è ben conscia del modo in cui viene ritratta nei media, e può essere pronta a storcere il naso per l’immagine che ne ha la cultura popolare (quando è effettivamente rappresentata in essa). Ci sono stati esempi di un artista chiptune che ha avuto successo, con tanto di susseguente pioggia di “venduto” piovuta dalla community. Ma, anche tenendo conto di questo fallimento, gli artisti possono essere davvero accoglienti e d’aiuto ai nuovi arrivati. Ian MacKaye ha descritto gli spettacoli punk come “una stanza piena di disadattati”, messi insieme da un sentimento e un interesse comune; non potrei descrivere meglio di così un concerto chiptune.

Insomma, quando metterete roba politica (se mai lo farete) nei vostri testi, diventando i Sex Pistols del chiptune e incominciando così a fare soldi come icone della controcultura?

Se considerate “Chick Fil-A Sucks” ((Catena di fast food a base di pollo http://en.wikipedia.org/wiki/Chick-fil-A, il riferimento è legato ad un inside joke della band)) come una dichiarazione politica di ampia portata (e la maggior parte degli Stati Uniti lo farà), allora ci siamo già arrivati da un pezzo a quello status. ;P

MySpace degli Anamanaguchi
Sito uffciale, con ascolto dei brani in streaming e download

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