L’importanza e la centralità dei Death in June, nel composito panorama musicale europeo (e non solo) è chiara, perché nella sua lunga e illustre carriera Douglas Peirce si è da sempre posto come innovatore e sperimentatore dei generi che andava via via ad affrontare. Così è stato per il seminale esordio punk (1981), il successivo passaggio alle sonorità elettroniche, e poi al folk.
Non è forse un caso che, col passare degli anni, il suo linguaggio sonoro si sia fatto sempre più scarno, intimista, minimalista, quasi dovesse seguire l’esigenza di un percorso interiore a ritroso, verso le origini del senso stesso della composizione e del suo pensiero artistico, da sempre controverso, ambiguo, metaforico.
Giunto ormai alle soglie della senilità, stagione in cui, di norma, ciò che di più importante è già stato detto e fatto, Peirce si immerge ancor di più nell’isolazionismo che gli è proprio, proponendo un nuovo disco che, sebbene diverso nella forma, rispecchia in tutto e per tutto il consueto contenuto artistico.
In questo “Peaceful snow” infatti, il front-man abbandona la chitarra acustica, sola compagna di molti dischi, in favore del pianoforte, suonato dal pianista croato Miro Snejdr. Inevitabilmente questa scelta forte potrà non piacere a tutti fan dei Death in June, soprattutto ai fedelissimi dei trade-mark neo-folk, ma bisogna dare atto all’autore di aver individuato un collaboratore valido artisticamente, e soprattutto genuinamente appassionato alla sua musica.
Le tinte dark tipiche delle composizioni di Peirce permangono, ma vengono qui ammantate da una coltre di candida classicità, austera come la neve, richiamata dal titolo. Accanto alle note del piano vi è la voce di Douglas, invecchiata, ma sempre capace di creare un’atmosfera personale, anche se l’amalgama con le tonalità del piano è forse meno facile e riuscito di quello con le corde della chitarra.
Per cui, sebbene il folk apocalittico che gli è proprio si qui leggermente accantonato, sono comunque presenti tutti gli elementi tipici e riconoscibili della scrittura del nostro, compreso l’universo lirico, ben sintetizzato dall’opener “Murder made history”, “A Nausea” e “Wolf rose”.
L’artista, forte del suo passato, si può permettere il lusso di lavorare e giocare sui suoi stessi stereotipi, ben sapendo di non essere chiamato a scrivere il capolavoro della sua carriera, ma solamente a raccontarsi come meglio crede. Gli ascoltatori, dal canto loro, hanno la possibilità di sentire i Death in june come tradotti in un altro linguaggio, con tutti i pregi e i difetti del caso.
Un disco che non aggiunge e non toglie nulla al prestigio e al valore della band, ma che potrà essere comunque interessante per i fan storici, gli appassionati del genere e i curiosi di nuove sonorità.
Un piccolo discorso a parte per il bonus disc “Lounge corps”, sostanzialmente un best-of strumentale in cui il pianista Snejdr (vero e proprio protagonista del doppio album) interpreta, con arrangiamenti mai banali, molti classici del passato dei Death in June. Progetto senza dubbio ascoltabile e a tratti piacevole, ma poco coinvolgente, data l’elisione della voce portante di Peirce.