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Il Venerdì Di ImpattoSonoro #14: Si è sciolta una band

Si intristisce, e continuerà ad intristirsi, questa struggente rubrica dedicata fondamentalmente al nulla. Perchè dopo una settimana e più di fatica, abbiamo bisogno di oziare, parlare di cose di cui parleremmo in un qualsiasi bar sport globale, o seduti su una panchina tra una trentina d’anni, ma più probabilmente anche prima. Oggi si parla di White Stripes. A cura di Fabio Gallato.

The beauty of art and music is that it can last forever if people want it to. (Meg & Jack White)”

Oddio, addio. Si sono sciolti i White Stripes. E dispiace.
Perchè i White Stripes hanno avuto il loro perchè, più di molti altri, ad inizio decennio, con almeno un paio di album sinceramente riusciti che mischiavano abilmente un’attitudine alternativa che molti vantavano di avere senza averla, e un’ineffabile furbizia commerciale, tanto scomoda quanto necessaria per sopravvivere in un mare, mai così affollato, di band tristemente uguali e fini a se stesse e poco altro.

Jack e Meg White, da Detroit, marito e moglie, poi ex-marito ed ex-moglie, poi spacciatisi per fratello e sorella, ci provarono così per caso. Chitarra, una batteria mai più che abbozzata, il basso più non c’era e dopotutto quasi non ce l’avevano neanche i Doors , strumenti vintage, riff blues presi in prestito da tutta la tradizione americana, un circo a stelle e strisce, un incubo cromatico fatto di bianco, rosso e nero, che affondava i colpi senza perdersi in troppe frivolezze di sorta, con una potenza comunicativa fuori dal normale e dagli schemi.
Di fronte all’avanzare di un post-rock freddo e gelido, i White Stripes proponevano uno sporco e sincero ritorno alle origini, consci che le nuove generazioni del rock ancora piangevano lacrime amare di fronte all’altare del grunge.
Divertimento e nostalgia, urgenza e ricercatezza, il futuro del rock sembrava in procinto di essere scritto sulla base di un approccio musicale fatto di collegamenti ipertestuali al passato.
Non ci andarono poi così distante, il primo album omonimo e il successivo “De Stijl” divennero subito dischi di culto, due autentici calderoni di semplicità, sabbia e furore rock’n’roll. Ritmiche ossessive e minimali, schitarrate per lo più scolastiche ma incisive come poche altre, i White Stripes si candidavano a pieno titolo per essere la risposta più furiosa a quei gran rompicoglioni che professavano da anni la “morte del rock’n’roll”.
I successivi “Elephant” e “Get Behind Me Satan” sancirono il loro successo planetario e confermarono la loro abilità nel comporre canzoni perfettamente funzionanti pur rimanendo ancorati alla limitata struttura chitarra-batteria. Blues, rock’n’roll, garage, psichedelia, la sensazione che il talento possa dare molto di più, ma va bene lo stesso.
Perchè, per quanto possa sembrare fastidioso, è evidente che Jack White possieda un talento che pochi altri hanno al mondo. Riuscirebbe a far sorridere perfino Jimi Hendrix, e tra quelli che lo credono puro revival, e quelli che lo innalzano a genio indiscusso, vince una terza corrente, che ha a che fare col rock’n’roll, con il sudore, con il sangue, con l’amore.
In un mare di progetti paralleli, fiacchi cloni e fotocopie fronte-retro, Meg e Jack sembravano suonare unici e irripetibili, con i loro pregi e con i loro difetti, tutti condensati nel loro ultimo disco “Icky Tump”. Allegro e scanzonato, forse anche un po’ cazzone,  di sicuro intraprendente, è l’album che chiude, per sempre, la ricerca musicale dei White Stripes convincendo definitivamente per freschezza e voglia di suonare attuali senza mai rinnegare il passato.

Jack e Meg White sono stati forse solo i migliori interpreti di un revival meglio confezionato degli altri, forse le rockstar del decennio appena passato, forse un’idea di vintage che arrivati al 2011 è giusto lasciare perdere, o forse una macchina infernale capace di vincere 5 grammy e vendere sei milioni di dischi e che è meglio non toccare.
Ma una cosa è certa, hanno capito gli anni zero, li hanno fatti propri, ammaliati e conquistati, con una sequela di canzoni sbilenche ed incredibili, a metà tra una spietata avanguardia e un’incredibile fruibilità.
E sì, sono stati un pezzettino di rock’n’roll.
Ci mancheranno alla grande.

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