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Interviste

Intervista a OMAR PEDRINI

Cantautore, intellettuale, enogastronauta, ex leader dei Timoria, e ora affermato cantante solista.
E’ qui con noi Omar Pedrini che, dopo una delle tante tappe del suo tour, ci parla di sé e dei suoi progetti futuri, del suo passato e del significato che ha per lui la musica.

Questa è stata una serata davvero molto intima e calorosa. Il pubblico ha partecipato dall’inizio alla fine ad ogni tua canzone e, più che ad un concerto, sembrava di essere ad un ritrovo di vecchi amici in un’atmosfera da Roxy Bar. Parlaci del tuo rapporto con i fan, come lo definiresti?
Lo definirei naturale. Da vent’anni mi seguono ed è come se fossimo una grande famiglia, è un vero orgoglio per me. E’ come una conquista nata anno dopo anno, è la conseguenza di aver seguito sempre la propria strada da vent’ anni a questa parte…e alla fine i risultati si vedono.

Dai Timoria ad oggi, anche a seguito di una serie di eventi, cosa è cambiato in generale e nel tuo modo di comporre?
Ma io credo che non sia cambiato nulla. Nella composizione cerco sempre di essere essenziale, che poi penso sia il percorso di tutti gli artisti.
E’ una frase che sentirai spesso da tutti quelli che fanno questo lavoro da tanti anni, lo dicevano sia Picasso che Calvino, che alla fine si impara a togliere invece che aggiungere.

Nel 2004 si apprende dai giornali che vieni colpito da un aneurisma aortico. Rimanendo sempre in ambito musicale, senza entrare in dettagli personali, quanto la musica ti è servita?
La musica è il mio modo di raccontare le esperienze, ma non so quanto mi abbia aiutato, nel senso che l’ha fatto la voglia di ricominciare a cantare. Ho fatto due anni dopo l’intervento in cui non potevo cantare, quindi ero convinto di dovermi inventare un mestiere: l’ho fatto con la televisione. Un amico mi ha detto che cercavano un autore e cosi è iniziata la mia carriera televisiva. Ho già condotto e scritto diversi programmi (come “Nu-Roads” e “Milano in Musica”, ndr), e se oggi sono a Rai5 in qualche modo lo devo alla malattia. Cerco sempre di trovare un lato positivo, è una mia caratteristica sin da bambino. Quando c’è stata una grossa difficoltà, questa è diventata un’opportunità. Poi, come per magia, si è rimarginata la ferita più alla svelta del previsto, e ho anche potuto ricominciare a cantare. Infatti questo tour è un po’ il mio nuovo esordio. Vent’anni dopo mi sembra di esordire di nuovo, ho scelto un’agenzia giovane e indipendente proprio per dire: ricomincio da capo, con l’entusiasmo e l’umiltà di chi si rimettersi in gioco.

Ciò che è accaduto ha cambiato la tua visione del mondo?
La visione del mondo cambia, nel senso che arrivare vicini alla morte comunque non può non farti riflettere. Io ho cercato di cambiare il meno possibile, perchè comunque il mio modo di essere mi ha aiutato anche nella malattia. Io ho sempre ragionato molto da orientale. Ho frequentato un’Ashram Indu per tanti anni, quindi se ho affrontato con serenità la malattia lo devo anche al fatto che, come diceva Gandhi, ero pronto a morire in ogni giorno.
Quindi, ecco, non ho conquistato la serenità con la malattia ma l’avevo già prima, per cui ho cercato di non cambiare. Magari qualche volta ho ceduto un po’ alla rabbia, mi son chiesto perchè proprio a me e non ad un altro, però ribaltando il punto di vista penso a tanti altri che ne sono morti mentre io, invece,mi son salvato. Se la vedi cosi sono stato fortunato.

Visto il tuo passato ed il tuo presente, in molti, me compresa, si sono stupiti nel sentirti cantare “Shock”. Alcuni ti hanno criticato, altri invece si sono soffermati sul perchè. Com’è nata questa canzone? Cos’ha significato per te?
Questa canzone è la più profonda che abbia mai scritto. Ero in ospedale moribondo, avevo quasi perso l’uso delle gambe e delle braccia, avevo il fisico molto provato, la voce era quasi scomparsa, ma Dio mi aveva tenuto buona la vista. Un giorno sbirciavo le gambe delle infermiere, mi piaceva guardare e capivo che dentro di me c’era ancora un uomo. E allora, siccome sapevo e temevo che fuori dall’ospedale ci fossero paparazzi e rotocalchi pronti a fare diventare la mia tragedia un dramma nazional-popolare, ho pensato di giocare sopra a questa cosa. Ho scritto una canzone che parla delle mutande delle infermiere e non del dramma. Magari ho perso un po’ di soldi, che mi avrebbero sicuramente dato per andare in tv e in radio a raccontare e a piangere, e invece ho voluto far ridere. Quindi il fare una canzone pop e scanzonata, è nata dall’esigenza di alleggerire tutto quello che c’era in quel momento. Avevo bisogno di tornare a sorridere, quindi ho fatto quella canzone che è stata in qualche modo terapeutica. Comunque, pur essendo tornato a quello che sono, è stato un episodio che in quel momento mi ha fatto molto bene, e ho anche dimostrato che posso far canzoni di questo tipo. Ho venduto tanti dischi e sono arrivato in finale al Festivalbar all’Arena di Verona, quindi mi sono detto che se un giorno vorrò misurarmi con questo mondo sono in grado di farlo. Io sono malinconico, non è che tutti i giorni mi sveglio con la voglia di suicidarmi, di solito “mi sveglio spento ma provo a starci dentro”. E’ un po’ come quando ti capita di fare una cosa pazza, poi dici non lo farai mai più, però ti sei divertito. Capita a tutti di fare qualcosa che poi non ci appartiene, e io l’ho fatto con “Shock”. Se ognuno avesse la sensibilità di leggerla come una canzone nata in un momento drammatico su cui ho voluto ridere e scherzare, tutti capirebbero che è stata una canzone molto coraggiosa.

Ti sei sentito un po’ come un esempio per le persone?
Si, in quel momento dovevo dare un esempio a tutti quelli che erano in ospedale. Io son stato due mesi e ho visto tanti drammi, ho conosciuto persone e ascoltato storie. Mi dicevo “se esco con questa canzone do una speranza anche a loro, non li faccio piangere ma li faccio sorridere, facendo capire che in ospedale ci si può anche divertire”. Questo è Omar insomma. Son stato criticato ma perchè trovo che la gente spesso sia superficiale, se avessero avuto voglia di capirmi si sarebbero resi conto che Omar non è cambiato, ma che aveva bisogno di leggerezza in un momento cosi pesante della vita.

Ti abbiamo conosciuto come rocker quando militavi nei Timoria, abbiamo osservato stupiti la tua veste pop con “Shock” e questa sera ti abbiamo ascoltato in unplugged. Tante sfaccettature musicali che mi portano a chiedere: Chi è Omar?
Non lo so, cerco di conoscermi però il percorso è lungo da fare. Omar è una persona che si mette sempre in gioco, che si stanca a fare sempre le stesse cose e che è estremamente curioso. Il mio difetto è sempre stato questo: come arrivo a qualcosa ho sempre voglia di far qualcos’altro! Già dai Timoria i miei dischi erano diversi l’uno dall’altro. Non riuscirei mai a fare lo stesso disco per tutta la vita. Buon per chi ci riesce! Non è una critica, ma io ho bisogno sempre di inventarmi qualcosa di nuovo altrimenti mi annoio. Sono così sia nella vita che nella musica. Prima con i Timoria ci criticavano perchè ogni disco era diverso dall’altro, però se uno li ascolta adesso, a distanza di tanti anni, si rende conto che quelli sono sempre i Timoria e che il non aver mai ripetuto lo stesso disco, anche dopo grandi successi, è una loro qualità.

A proposito di songwriting, un aspetto che mi incuriosisce molto è il come nasce una canzone. Da cosa trai spunto quando scrivi/componi?
A me vengono un po’ da sole le canzoni. Scrivo sempre prima la musica e poi ci metto il testo per farla capire agli altri, anche perchè a me non servirebbe. Avrebbe già una sua musicalità, però il testo è un modo in più per comunicare dei sentimenti agli altri. Non esiste un metodo, mi vengono un po’ da sole. Per “Lavoro Inutile”, per esempio, tutto è partito da una riflessione sul fatto che forse faccio un lavoro per tante persone inutile e ci dedico tempo. E’ un lavoro non un hobby. Insomma nasce l’idea, prendo la chitarra e c’è un momento in cui viene fuori.

Parliamo dei tuoi progetti futuri: ti sei rilanciato con IndieBox, quindi con persone fresche e giovani, e hai appena pubblicato un nuovo singolo. Ora, quali sono le tue aspettative?
Mi aspetto di proseguire per la strada che abbiamo intrapreso, di continuare cosi e di fare un gran bel disco. Siamo già partiti con il lavoro per l’album nuovo, abbiamo buttato giù le prime idee e c’è della roba forte. Mi sa che quest’anno sarà una buona annata per il mio vino.E poi mi piace fare musica, un po’ come l’insegnamento universitario, lo faccio non per la leva economica ma per passione. Stare con dei ventenni universitari è un grosso stimolo per me. Oggi che sono con IndieBox, che sono tutti giovani, quando vado nel loro ufficio mi piace essere guardato dai loro occhi, che non sono quelli dei miei coetanei, e le loro osservazioni valgono molto, perchè so che sono più pure di quelle che può avere la gente che fa questo lavoro da tanti anni. Questo è tutto ciò che mi piace in questo momento. Ho iniziato il mio ventunesimo anno di carriera e credo che il segreto sia proprio questo, tenermi sempre aggiornato, anche perché questo modo non si invecchia mai. I capelli grigi ci sono, ma dentro non invecchi e questo è fantastico. La persona più giovane che ho conosciuto in vita mia è stata Luigi Veronelli, il mio maestro, che, quando l’ho incontrato, aveva 72 anni. L’ho frequentato per gli ultimi 6 anni della sua vita e siamo diventati come padre e figlio, lui è la persona più giovane che abbia mai conosciuto in vita mia. Andavamo ai centri sociali ad assaggiare vini, un vero personaggio. Se invecchio voglio diventare cosi e mi sembra di essere sulla buona strada.

a cura di Mairo Cinquetti e Francesca

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