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Beirut – The Rip Tide

2011 - Pompeii Records
folk/indie

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Tracklist

1.A candle's fire
2.Santa Fe
3.East Harlem
4.Goshen
5.Payne's bay
6.The Rip Tide
7.Vagabond
8.The peacock
9.Port of call

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Adesso non è che si vuole sparare a zero sull’indie, però provando ad ascoltare le note di A candle’s fire uno non può non notare l’intero ritornello di Have you ever seen the rain dei Creedence Clearwater Revival nel finale. The Rip Tide non è un pessimo prodotto, o meglio, è probabile che non fosse propriamente nelle volontà dei Beirut quella di costruire un album noioso e privo di spunti entusiastici, se non un paio di memorie di tempi andati qua e là tra i nove brani che compongono il disco.

Voler iniziare un album con le note di A candle’s fire è più di una dichiarazione di resa all’inflazione e al livello di paradosso raggiunto da un genere che, nonostante tutto, continua a riprodursi come un gremlin malefico e rompiballe e voler proseguire il discorso con Santa Fe, jin gle ripetitivo che, se non fosse per un cantato piuttosto divertito, annoierebbe anche il più dipendente consumatore di MDMA del mondo, significa essere arrivati al quinto anno di carriera con le polveri bagnate e la testa vuota, praticamente un suicidio per chiunque già si trovi sull’orlo di un baratro dal quale è impossibile tornare indietro. Il gruppo di Zach Francis Condon, arrivato al terzo album in cinque anni, è stato una bella speranza della musica fin quando non ha incontrato e abbracciato i caratteri mainstream di un mondo che è fin troppo mainstream e che un giorno di questi, paradossalmente proprio per questo motivo, non lo sarà più. Nel futuro prossimo sarà più facile vedere tornare in voga un atteggiamento da crooner che una camicetta indie o un taglio di capelli indie o un paio di scarpe indie. C’è stata un’onda anomala che non ha rinvigorito, attraversandole, le terre aride, ma che ha spazzato via, semmai, quei pochi frutti maturi che in esse ancora resistevano, è per questo che un lavoro come The Rip Tide è da considerarsi più come un cancro che come una cura e volendo perseverare si arriverà un giorno a non riconoscere più la differenza tra virus e vaccino e questo è male anche solo se si dovesse trattare di uno stupido raffreddore.

In preda alla paura di affondare abbandono la nave che i Beirut continuano a tenere in mare nonostante le sue falle e mi dirigo lontano, verso la costa, per non sentire anche una sola nota della conclusiva Port of call, ennesimo episodio di una piattezza imbarazzante in un lavoro che non lesina ariosi ed insistenti riff di trombe e tromboni. Vecchi tromboni.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=jqtDIeJW0ss[/youtube]

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