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The Roots – Undun

2011 - Def Jam
hip-hop/soul

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Tracklist

1. Dun
2. Sleep
3. Make My (Feat. Big K.R.I.T.)
4. One Time (Feat. Phonte and Dice Raw)
5. Kool On (Feat. Greg Porn & Truck North)
6. The Other Side (Feat. Bilal Oliver & Greg Porn)
7. Stomp (Feat. Greg Porn)
8. Lighthouse (Feat. Dice Raw)
9. I Remember
10. Tip The Scale (Feat. Dice Raw)
11. Redford (For Yia Yia & Pappou)
12. Possibility (2nd Movement)
13. Will To Power (3rd Movement)
14. Finality (4th Movement)

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L’hip hop che piace a noi, filosofico, con basi raffinate, per niente bling bling, senza puttane. Loro sono i mitici The Roots. Coerenza e stile dal 1987, probabilmente il gruppo più rigoroso, autentico e ispirato fra le tante formazioni hip hop degli ultimi anni.

Fedele ancora una volta all’accompagnamento strumentale con basso, chitarra e batteria non campionata, il combo di Philadelphia torna sulla scena con “Undun”. Stavolta Questlove e soci hanno scelto la via difficile. Avrebbero potuto puntare su un altro album come “Rising Down” (2008) oppure “How I Got Over” (2010), che sicuramente avrebbe rotto le natiche a tanti là fuori. Invece hanno puntato sul primo concept album vero e proprio della carriera, in cui è l’aspetto del songwriting ad essere maggiormente sviluppato, con una cornice di suoni impeccabili e una classe davvero invidiabile.
Si parlava di songwriting, già, perchè ogni canzone è scritta per raccontare la vita incompiuta di Redford Stephens, giovane proveniente dal ghetto, che di fronte ai bivi della vita e della lotta alla sopravvivenza sceglie la via del crimine che lo condurrà ad una morte prematura. Ciò che da subito colpisce del lavoro, è un chiaro ritorno alle radici della tradizione della musica black, nello specifico quella legata agli anni settanta. Un intreccio di hip hop (tanti i “feauring” con il loro inarrestabile flow), funk riflessivo ed elettronica (“Sleep”), rock, ma soprattutto soul, con raffinati arrangiamenti orchestrali, la morbidezza degli organi hammond, voci maschili e femminili che si mescolano, arrivando nel modo migliore all’ascoltatore e legandosi in maniera profonda con la storia che viene narrata. L’atmosfera creata dal sound degli statunitensi è malinconica, ma combattiva, militante, tale da prenderti il cuore e strapazzartelo come un pugno che si chiude, ne sono esempi perfetti “One Time”, “The Otherside”, le meravigliose “I Remember” e “Tip The Scale”. Certo l’esplosività dei primi album è scomparsa, lo dimostrano certi passaggi più deboli degli altri, ricoperti da una patina eccessivamente pop come “Lighthouse” e “Stomp”, ma colpisce più di ogni altra cosa, il coraggio della band, che nel finale affida ad una elegante suite in quattro movimenti  la caduta di Stephens.

Sono ancora i The Roots stessi ad indicare la via, a lanciare quel messaggio di redenzione tipico della black music, pronto ad essere recepito ed ampliato da terzi. Perchè, ne siamo certi, Questlove e compagni al prossimo disco saranno già altrove, ferendo e istruendo con la loro arma preferita, la musica.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=8zrQAf8PT6k[/youtube]

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