L’hip hop che piace a noi, filosofico, con basi raffinate, per niente bling bling, senza puttane. Loro sono i mitici The Roots. Coerenza e stile dal 1987, probabilmente il gruppo più rigoroso, autentico e ispirato fra le tante formazioni hip hop degli ultimi anni.
Fedele ancora una volta all’accompagnamento strumentale con basso, chitarra e batteria non campionata, il combo di Philadelphia torna sulla scena con “Undun”. Stavolta Questlove e soci hanno scelto la via difficile. Avrebbero potuto puntare su un altro album come “Rising Down” (2008) oppure “How I Got Over” (2010), che sicuramente avrebbe rotto le natiche a tanti là fuori. Invece hanno puntato sul primo concept album vero e proprio della carriera, in cui è l’aspetto del songwriting ad essere maggiormente sviluppato, con una cornice di suoni impeccabili e una classe davvero invidiabile.
Si parlava di songwriting, già, perchè ogni canzone è scritta per raccontare la vita incompiuta di Redford Stephens, giovane proveniente dal ghetto, che di fronte ai bivi della vita e della lotta alla sopravvivenza sceglie la via del crimine che lo condurrà ad una morte prematura. Ciò che da subito colpisce del lavoro, è un chiaro ritorno alle radici della tradizione della musica black, nello specifico quella legata agli anni settanta. Un intreccio di hip hop (tanti i “feauring” con il loro inarrestabile flow), funk riflessivo ed elettronica (“Sleep”), rock, ma soprattutto soul, con raffinati arrangiamenti orchestrali, la morbidezza degli organi hammond, voci maschili e femminili che si mescolano, arrivando nel modo migliore all’ascoltatore e legandosi in maniera profonda con la storia che viene narrata. L’atmosfera creata dal sound degli statunitensi è malinconica, ma combattiva, militante, tale da prenderti il cuore e strapazzartelo come un pugno che si chiude, ne sono esempi perfetti “One Time”, “The Otherside”, le meravigliose “I Remember” e “Tip The Scale”. Certo l’esplosività dei primi album è scomparsa, lo dimostrano certi passaggi più deboli degli altri, ricoperti da una patina eccessivamente pop come “Lighthouse” e “Stomp”, ma colpisce più di ogni altra cosa, il coraggio della band, che nel finale affida ad una elegante suite in quattro movimenti la caduta di Stephens.
Sono ancora i The Roots stessi ad indicare la via, a lanciare quel messaggio di redenzione tipico della black music, pronto ad essere recepito ed ampliato da terzi. Perchè, ne siamo certi, Questlove e compagni al prossimo disco saranno già altrove, ferendo e istruendo con la loro arma preferita, la musica.
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