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Diossina

DIOSSINA #01: Intervista ai GRAN TURISMO VELOCE

Non c’è bisogno della palla di vetro o tantomeno del buon senso per sapere, o perlomeno immaginarsi, che per una band emergente, magari con un buon disco alle spalle e buone critiche dei giornali, trovare spazio nei locali dal vivo, nelle booking agency, nel mondo dei promoter e delle case discografiche è un inferno di inciuci e raccomandazioni e spinte e favoritismi.Discorsi fatti e rifatti. Talmente abusati anche a livello retorico che sono diventati “aria”, invisibile contesto ormai tollerato passivamente da tutti. È questo il pericolo e la realtà. Una realtà non limitata al nostro limitato paese dei balocchi ma anche all’esterno, naturalmente. Ed ecco che un gruppo si è stancato. Stancato di cercare e dover cadere a compromessi ridicoli. Stanco di ritrovarsi immischiato in cose poco chiare. Stanco di non poter suonare per via della sua etica, del tutto refrattaria ai soliti giochini.
La band in questione sono i toscani Gran Turismo Veloce, un misto di sonorità ‘70s, vintage analogico di circuiti sintetici,  sperimentalismi più aperti ai migliori Dredg e dagli ipnotici rituali elettronici.
Ai primi di Aprile inizierà il loro primo tour europeo, del tutto gestito autonomamente e in barba alle agenzie locali.
Lo hanno organizzato con decisione e tanti sforzi, in piena politica DIY e con un’idea alla base, comunicare con i propri fan, con chiunque li volesse ascoltare la loro esperienza di band in viaggio fuori dal sistema.

DIOSSINA nasce in contemporanea con l’inizio del tour europeo dei Gran Turismo Veloce: raccoglierà i post e i v-log della band in viaggio e ci terrà legati  a loro e al loro progetto.
Sono partiti in questi giorni da Grosseto, si stanno dirigendo in Europa per proporre la loro musica. Li seguiremo passo passo, ma intanto qualche domanda per conoscerli meglio.

a cura di Michele Guerrini

Da quale pianeta provenite?
Ricordiamo ancora quel giorno in cui i Vogon ci espulsero dalla navicella perché in contrapposizione con la loro burocratica visione della poesia e della musica. E’ già tanto che siamo riusciti a salvarci dalla tortura dell’ascolto degli scritti del prostetnico Vogon Jeltz! Approdammo sulla terra sotto forma di baccelli ma, essendo atterrati intorno a Grosseto, finimmo sulla tavola di un contadino che voleva divorarci accompagnandoci con una forma di pecorino di fossa e una bottiglia di torchiato rosso. Ancora non ci spieghiamo come abbiamo fatto a salvarci.

Iniziamo dall’argomento di cui tutti parlano, il vostro Tour europeo: dal 1 Aprile alla fine di Maggio attraverserete l’Austria, la Repubblica Ceca, la Germania e l’Olanda per approdare in Inghilterra. Sembra che questo tour autoprodotto nasca in polemica con lo status quo del sistema musicale italiano, come una protesta alle tante situazioni assurde in cui vi siete trovati nel tentativo di suonare live. Ci spiegate meglio?
L’idea del tour nasce dalla frustrazione. Nonostante il nostro primo album sia stato accolto dal pubblico e dagli addetti del settore in modo estremamente entusiasta, non riusciamo a trovare occasioni per suonare dal vivo. Non ci stancheremo mai di urlare il nostro sdegno di fronte alla moda dei locali che fanno suonare “solo se mi garantisci tot. ingressi” o “per un panino e una birra tanto lo fate per divertirti”, quando non addirittura “il locale costa X, affittalo e la serata organizzatela voi”.
Sono episodi di una storia lunga e ben nota a chiunque tenti di fare musica originale in Italia, e perfino a chi semplicemente la ascolta. Il rischio infatti è proprio che vengano considerati una prassi consolidata e magari immutabile. Ci sarebbe da fare un lungo discorso sulla deriva culturale italiana, ma ci annoia e ci deprime solo il pensarci. Inoltre basta chiacchiere, passiamo all’azione. E la nostra azione è aver comprato un camper per girare l’intera Europa e portare la nostra musica al pubblico internazionale che ci ha così calorosamente accolto. Non si tratta di snobbare l’Italia né di preferire il pubblico estero a quello del nostro paese, si tratta semplicemente di aggirare il problema per arrivare al risultato. In Europa vivono ancora spazi per la musica emergente così, se qui non li riusciamo a trovare, andiamo a cercarli all’estero. E in effetti li abbiamo trovati: al momento abbiamo sedici date in otto città e speriamo di aggiungerne altre.

Con il vostro tour cosa volete comunicare e provare a voi stessi?
Vogliamo comunicare innanzitutto un vaffanculo al sistema chiuso dei promoter e dei locali che non propongono più la musica originale e propinano esclusivamente una cover band dopo l’altra. Vogliamo dire che se ne può fare a meno, se questo è tutto quello che propongono. Vogliamo dire che non ci piace sentirci bloccati con motivazioni pretestuose. Vogliamo dire che dopo aver lavorato duramente a un album, dopo esserne rimasti soddisfatti e dopo aver ricevuto reazioni positive da chi l’ha ascoltato, vogliamo concludere il suo percorso naturale presentandolo a più persone possibile, e se nessuno ci aiuta in questo ma anzi ci ostacola, beh lo scavalchiamo. Si tratta chiaramente di un’operazione che ha una sua buona dose di incoscienza. Ma ne ha altrettanta di programmazione, tenacia e disciplina. Da due mesi stiamo organizzando con grande attenzione le decine di esigenze logistiche, economiche e pratiche, in un tripudio di Piani-B e soluzioni d’emergenza. Potremmo tornare vincitori o anche bucare una gomma e fermarci dopo 10 chilometri. In ogni caso, sarà una bellissima esperienza per noi e un esperimento per tutti. Alla fine potremo ben dire come Randle McMurphy, “Ameno ci ho provato, vacca troia, almeno ci ho provato.” Certo, speriamo di fare una fine migliore della sua.

Che cosa ci dobbiamo aspettare dai post del diario del vostro tour? pazzia o riflessione?
C’è una qualche differenza? Più seriamente, poiché il tour è un esperimento, vogliamo condividere con chi è nella nostra stessa condizione quello che attraverseremo. Al netto di difficoltà di connessione all’estero (vedi le questioni logistiche di cui sopra: la scelta di una chiavetta internet e la mappatura di tutti gli internet point wi-fi gratuiti ci ha portato via settimane), vorremmo postare aggiornamenti molto frequenti per raccontare in modo onesto e continuato l’avventura, per rendere tutti partecipi dei risultati che otterremo, o dei problemi che sorgeranno. I post rispecchieranno quel che succederà: se le cose andranno bene, ci saranno articoli con reportage dalle varie serate; se le cose andranno male, sarà uno splendido viaggio a puntate nella follia.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=I3iulf3rXi8[/youtube]

Quanto pensate possa ormai ritenersi indipendente e autarchico un artista ai giorni d’oggi? Quanto è troppo spesso costretto nei sistemi della distribuzione, delle agenzie di booking e delle major? Cosa avete pensato quando i Radiohead o i NIN hanno deciso di tagliare ogni collegamento di dipendenza con le etichette?
Noi le major le conosciamo solo per sentito dire quindi, piuttosto che lanciarci in un comodo “bravi i Radiohead”, ci facciamo un’altra domanda: se i Radiohead non avessero pubblicato il loro primo disco con la Parlophone (che è una branca della Columbia), avrebbero avuto l’opportunità di sganciarsi in segno di protesta? O magari sarebbero ancora in giro a sputare sangue sperando in un contratto? Organizzare questo tour ci ha insegnato tantissimo, non solo in termini personali ma anche economici, e prima di dire “Fanculo le major, noi siamo rockstar nude e crude” ci pensiamo due, anche tre volte. Le major, come le agenzie di booking e i promoter, dovrebbero essere, nella loro migliore accezione, quei soggetti che aiutano gli artisti a preoccuparsi solo della musica. Se da un lato non giustifichiamo i contratti pulciosi e ingannevoli che spesso fanno firmare alle band, diciamo anche citando Elio: “la merda non è così brutta come la si dipinge”.

Come è nata la vostra identità? come siete diventati una band che ama i ’70s, il post rock, l’elettronica e i synth analogici allo stesso tempo?
E’ un po’ come rispondere: come hai fatto a farti piacere il filetto al pepe verde, i film di Kubrick e i dipinti di Dalì? Tutto quello che citi sono semplicemente cose che ci piacciono: gli anni ’70 hanno prodotto delle sperimentazioni originalissime in ogni campo creativo, l’elettronica può essere considerata una di queste evoluzioni, i synth analogici hanno dei suoni bellissimi non riproducibili in altri modi e il post rock non abbiamo idea di cosa sia ma ci fidiamo di voi. Mettere insieme ognuno di questi elementi, come ogni altra cosa che ci piace, ci entusiasma e ci diverte. Quando succedono queste due cose, è fatta.

Quali esperienze vi hanno formato come musicisti e come band? da chi pensate di aver preso influenza e da chi vi volete allontanare?
La verità è che se tu girassi questa domanda a qualsiasi gruppo ti sentiresti rispondere più o meno questo: “Io ho fatto questo, ho ascoltato quest’altro e poi ho incontrato Tizio che mi ha presentato Caio. Tizio aveva iniziato a suonare la chitarra perché ascoltava gli Intestinal Disorder, mentre Caio picchiava sulla batteria perché il suo mito era William Rotten dei Purulent Fistula; ascoltavamo molta musica e ci è venuto naturale fare la nostra, poi chi vivrà vedrà”. I GTV invece a questa domanda rispondono dicendo: “L’influenza l’avrai presa te, per cui è da te che ci allontaniamo, giacché sei infetto. Però a pensarci bene, oltre che da te, ci allontaniamo anche da tutti i prodotti a tavolino e da tutto quello che nella musica è pilotato da meccaniche esclusivamente di mercato anziché da passione e buon gusto”.

Il vostro album “Di carne di Anima” è un’opera molto complessa, dai risvolti aggressivi e ipnotici, ma anche cantautorali… quale era l’idea dietro di esso?
Non c’è mai stata un’idea precisa né dietro ai GTV, né al disco. Più che di idea  preferiamo parlare di obiettivo: quel che ci è stato chiaro sin da subito era scrivere e arrangiare canzoni in modo che emozionassero noi per primi. Ogni tanto capita di riascoltare il disco e, a un anno di distanza, ancora in qualche passaggio sentiamo drizzarsi i peli (perché di capelli proprio non possiamo parlare…). E’ una bella soddisfazione ascoltare i propri brani e sentirli con la risposta emotiva con cui di solito si ascoltano i grandi gruppi del passato e del presente. Per questo siamo molto convinti del nostro lavoro. E speriamo che tutta questa sincera passione per la nostra musica sia trasmessa nei 45 minuti del disco.

Come nasce un testo dei GTV e quale genesi hanno avuto pezzi surreali come “Quantocamia” con un incedere elettro sotterraneo e “Misera Venere” in cui mischiate sia l’indie folk e la visione onirica degli Air?
Solitamente il nostro è un approccio cinematografico alla musica: quando viene portata una nuova idea o un nuovo riff, lo immaginiamo come se fosse la colonna sonora di una scena di un film; il testo viene di conseguenza. In “Misera Venere” abbiamo cercato di ricreare l’atmosfera fumosa e noir di un bar di un film anni ’50; in “Sorgente sonora” di farci una corsa furiosa in mezzo a un campo per poi sdraiarci sull’erba. Quantocàmia è una storia a sé: abbiamo percepito l’impatto sonoro (perdonateci il gioco di parole) e lo abbiamo subito associato al possente e inquietante camion di Duel di Steven Spielberg. Il nonno siciliano di Flavio (il bassista) odiava il traffico di mezzi pesanti sotto casa e spesso esclamava “Minchia, quantocàmia!” ovvero: “Cazzo, quanti camion!” Perfetto, no?

Cosa avete in progetto per le prossime composizioni della band?  avete in cantiere collaborazioni o uscite split?
Stiamo scrivendo un concept album sulle favole per bambini che più ci hanno toccato nella nostra infanzia. Due nuovi brani sono già su Youtube in un’esibizione live (“Il gigante egoista” e “Alice nel paese delle meraviglie”) per cui la linea guida è già fissata. Ci piacerebbe che nel disco collaborassero i colleghi che in quest’anno di “di Carne, di Anima” abbiamo avuto modo di conoscere e apprezzare. Quello che ancora non sappiamo è se continueremo a scrivere in italiano o magari passeremo all’inglese. In fondo partiamo alla volta dell’Europa proprio per questo: chissà che non sia la tedesca Inside Out o l’inglese K-Scope a scioglierci questo dubbio…

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