Rispetto al debutto del 2009 “Gorilla Manor”, la formazione statunitense cambia piuttosto sensibilmente direzione mollando un po’ la presa indie folk per abbracciare atmosfere più varie e votate ad un pop rock piacevole ed elegante, anche se non originalissimo.
Ma pur cambiando modus operandi, non mutano i pregi ed i difetti già evidenziati dai Nativi con il precedente lavoro: se da un lato infatti confermano di sapere scrivere e costruire belle canzoni, orecchiabili e mai troppo easy, dall’altro continuano a non brillare per peculiarità e creatività. E quindi nella colonna “pro” metto su tutto le sonorità, eleganti e caratterizzate da una facilità d’ascolto davvero notevole; il fatto poi che questa cosa appaia spontanea ed innata, e dunque non forzata né tanto meno cercata, non fa altro che accresce ulteriormente il valore delle composizioni. Contestualmente però non posso esimermi dall’appuntare sotto la voce “contro” i numerosi ammiccamenti che vanno in questo caso dai Radiohead a Jeff Buckley, passando per Fleet Foxes, Friendly Fires e The National e che, pur garantendo un’eterogeneità sonora davvero importante e gradevole, contestualmente certificano una carenza di originalità alquanto marcata.
Detto ciò, “Hummingbird” è un album che gira davvero bene, fluido, radiofonico e che ci pone al cospetto di una formazione importante e che pare ben conscia delle proprie capacità ed abilità: non sono innovatori né tanto meno sperimentatori – e quasi certamente mai lo saranno –, bensì musicisti abili nello sfruttare i propri talenti, senza esagerare e dosando bene le proprie forze, melodiche e armoniche.
Non siamo cioè di fronte a The Next Big Thing, ma ad una band che sa certamente fare bella musica. E questo secondo lavoro ne è ulteriore conferma e testimonianza.
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