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YO LA TENGO – Limelight, Milano, 11 marzo 2013

yolatengo

Nessuno metta in dubbio la grandezza e l’importanza dei Yo La tengo.
Così come è innegabile il loro talento. Talento che, nella maggior parte dei casi, sfocia in dei capolavori di dischi.
Hanno fatto la storia della musica anni ’90 vs/con gli Sonic Youth, e ancora nel 2013 producono buona musica e sono attivissimi sulla scena. Anche Fade, l’ultimo album, sebbene definito il disco della maturità (che di solito è un eufemismo per dire = lento e noioso) e del privilegiare l’emozione rispetto al ritmo, trovo sia -nella sua categoria- un gioiellino.

Poi fanno i live.
Quello che ho visto domenica al LimeLight, era un’agonia. Nel tempo di due brani sono riusciti a farmi balenare in mente che forse proprio quella sera su La7 davano un film che avrei voluto vedere.
Io capisco i decenni di carriera, approvo la svolta soft indie e posso pure chiudere un occhio sui 10 kg messi su da James McNew (che nonostante questo continuo a trovare affascinante), però -cristo- non intendo essere transigente sulla loro performance che definirei staticamente statica.
Tecnicamente non hanno sbagliato un colpo, ma sembrava di assistere ad un saggio del conservatorio, e non ad un concerto di gente che ha fatto la storia.
Per la cronaca: ogni 5 pezzi i YLT si concedevano un break di 10 minuti, in cui ho avuto il sospetto andassero nei camerini ad inalare ossigeno dalle bombolette.
Potrei dilungarmi moltissimo sulla magnifica voce di Georgia e Ira, ma questo già si sapeva. Basta ascoltare mezzo disco per farsi un’idea della loro tecnica e delicatezza compositiva.
Al concerto mi aspettavo di più. Volevo uno spettacolo. Non della noia.
Gli Yo La Tengo hanno comunque toccato tutto il loro repertorio stilistico anche se solo con un pezzo sono ritornati alle schitarrate grezze e alla cassa dritta, per il resto sono rimasti nel magico mondo delle ninne nanne, che andrebbe benissimo starci 20-25 minuti. Un’ora e mezza, è davvero una rottura di palle.
Non ho capito, poi, la necessità di riassettare il palco quando l’unica cosa diversa è stata l’introduzione della batteria che comunque era talmente blanda -salvo picchi di pressione- che sembrava solo un pretesto per concedere ai tre altre pause.
Come se avessero dei pisolini programmati.
Forse era sbagliata solo la location, perché a pensarci poteva sembrare un concerto confezionato per i teatri. (Però mica gliel’hanno spostato all’ultimo al LimeLight, motivo per cui trovo ancora più sbagliato questo live.)

Ora le cose buone: nonostante questa grande noia percepita, il locale era molto silenzioso durante l’esecuzione, alcuni rapiti altri presumo addormentati MA in alcuni brani anch’io ho sentito la magia YLT e per 4-5 minuti mi sono completamente dimenticata di cosa avessi attorno. Peccato per i restanti 100 di minuti.
Sapendo cosa m’aspettasse, forse mi sarei limitata ad ascoltarli come faccio sempre: a tutto volume in cuffia, camminando.
Ora, invece, dovrò fare i conti con questa nuova versione “too old to fuck” dei YLT e cercare comunque di andarci d’accordo.
Possiamo consolarci realizzando che i loro dischi ormai li abbiamo e nessuno ce li tocca, e crogiolarci nelle foto di loro giovani (frutto di ricerche disperate su internet) al motto di “il buon sound non invecchia mai” augurandoci che questo valga anche per i YLT.

Vi lascio con il commento che meglio di tutti riassume l’essenza del live:
“Sono 10 anni dall’ultima volta che li ho visti e si sentono tutti. Almeno prima stavano in piedi”.

[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=K5fuUpZaKbU[/youtube]

Georgia Hubley è uguale a Ellen Degeneres.
L’addetto al cambio strumenti (ne hanno suonati un’infinità) è uguale a Hagrid di Harry Potter.

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