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Dacast – Dedàle

2013 - Autoproduzione
free grind

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L’idioma francofono ingentilisce qualsiasi sostantivo, si dice. Persino il moniker d’estrazione francese, quel Dacast – duro, tronco, spigoloso – gioca a stravolgere il comune sentire, nel mondo sconquassato di questi carbonari parigini dediti alla più dissoluta de-costruzione musicale. Di loro non si sa nulla: no label, no comunicati stampa, no interviste. C’è solo uno spoglio Bandcamp a testimoniare il loro pestilenziale passaggio lungo i bordi della discografia. Il loro esordio “Dedàle”, sinfonia per l’estinzione umana che arriva appena a sfiorare la mezz’ora, divisa in due suite senza peraltro qualsivoglia cesura organica tra le parti, è un manufatto informe forgiato con lancinante brutalità. Interamente autoprodotto, questo bolide made in France procede lungo i binari d’una asfissiante jam-free form di progressive-mathcore che non si fa specie nel fagocitare ritmiche in odore jazzcore (Naked City e varie psicosi zorn-iane) e rumorismo (per non dire dissonanza) allo stato brado mutuato dal grind. Ma attenzione al percorso. Sono i continui cambi di direzione, la forza di un disco ostico che riesce a non annoiare: è un gioco (perverso) di scatole cinesi quello dei Dacast, laddove prima alternano, poi dispongono in maniera circolare, poi speculare infine (ci si rende conto) inviluppano in una spirale fatta di vuoti e pieni, andirivieni paranoici intervallati da qualche raro grido assassino. Servono orecchie ben disposte, fuori discussione. Radicali. Eppure la poesia del costante divenire nella composizione di Dedàle pare palpabile: come gli stormi di rondinelle che ipnotici danzano nel cielo, dapprima maestosi e bellissimi, via via sottilmente inquietanti nel loro ordinato sbandare, che sembra puntare dritto verso di noi. È in quel momento, coi timpani inabissati da qualche parte tra Dillinger Escape Plan e Flying Luttenbachers, che ci accorgiamo che non è affatto primavera.

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