Il fatto che la copertina di questo disco ricordi per certi versi quella di “Chaosphere” dei Meshuggah non è un caso.
Sebbene infatti la proposta musicale dei due gruppi sia diversa, il fine é molto simile: intrappolare il nostro cervello per torturarlo a dovere.
Nel fare questo, il misterioso gruppo australiano parte dal death metal di matrice più tecnica e deviata, debitrice di gruppi come i Gorguts di “Obscura” o i Cryptopsy (certe cose di “…And Then You’ll Beg”), per arrivare ad un suono nerissimo e denso come la pece, in parte indefinito e micidiale.
L’atmosfera opprimente e claustrofobica rende l’ascolto un’esperienza soffocante e ogni tentativo di melodia è cancellato da tonnellate di dissonanze e incastri ritmici che ricordano i migliori Immolation ma con una surrealitá di fondo pienamente debitrice dell’ universo Lovercraftiano.
L’apertura del disco è affidata ai blast-beat malsani di “Kilter” che, con la successiva “The Back Ward”, ci trasporta in una dimensione caotica e senza uscita.
I suoni sono molto più puliti e curati rispetto ai lavori precedenti pur mantenendo quel tocco personale di ogni strumento; una particolare menzione va fatta al lavoro di produzione sulle chitarre, cupissime come forse mai mi è capitato di sentire ma mai confuse.
I quasi sei minuti di “Curtains”, caratterizzati da un riffing quasi black ma totalmente disarmonico, risulta uno dei migliori brani di “Vexovoid”, dove ritmi serratissimi e compatti si alternano a rallentamenti memori dei Morbid Angel del periodo “Covenant”/”Domination”.
Sulla stessa lunghezza d’onda la successiva “Plasm”, che da metà in poi si trasforma un muro di rumore, quasi a fare da spartiacque tra le due metà dell’album.
“Awryeon” presenta ancora le due facce del gruppo australiano, con la prima metà serrata e furiosa e la seconda lenta e più sperimentale.
I due minuti e mezzo di “Orbmorphia”, schizofrenici e imprevedibili, ci portano dritti alla traccia finale in cui veniamo investiti da una quantità enorme di frequenze infrasoniche.
Il brano, che rimane sempre in bilico tra un drone denso di subarmoniche e il noise puro, è senza dubbio quello più sperimentale dell’intero lavoro e rappresenta la perfetta conclusione di “Vexovoid”.
Ennesima prova senza errori per gli australiani che si dimostrano ancora una volta uno dei pochi gruppi capaci (insieme a Deathspell Omega, Ulcerate, Altar Of Plagues e pochi altri) a rappresentare la vera avanguardia in campo estremo.
Difficili, quasi impenetrabili e, per molti, anche irritanti ma unici e geniali.
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