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Interviste

Intervista ai MAMAVEGAS

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Non sai mai chi incontri in una serata di inizio estate e non sai mai cosa ti porti a casa quando è finita.
Il 30 aprile a lasciarci qualcosa sono stati i Mamavegas, in un live all’ Angelo Mai di Roma: lo hanno fatto non solo con la musica, ma anche con le parole scambiate con Emanuele Mancini, cantante della band.

Io direi basta con le solite interviste… a maggior ragione se si parla di voi.
Sì, basta! Anche se poi l’intervistatore giustamente vuole sapere cose più o meno imprescindibili legate al disco, e va a finire che ne abbiamo già parlato nelle altre interviste…

L’album riassume in un certo senso uno stile di vita: ce ne parli un po’?
Più che uno stile di vita forse un nostro sentire comune. Ci spaventano le prove importanti alle quali ci mette di fronte la vita: quando ci chiede di amare, di sperare, di credere nel prossimo. L’idea è stata: “Allora facciamoci un disco”. Come quando da bambino di notte avevi paura che ci fosse un killer sotto al letto, e cominciavi a parlare fra te e te per convincerti che non fosse possibile, e allo stesso tempo aumentavi la paura…

“Una lente al negativo che ha l’intento di esorcizzare le paure”: quali sono le vostre?
Parlo per me ma probabilmente colgo lo spirito di tutti: le paure sono quotidiane, la delusione data da un amico, la fine di un amore, le speranze disattese. Ormai ci siamo passati, sappiamo come affrontarle e in un certo senso non abbiamo più paura. Però la memoria del dolore resta lì e ti fa ricordare quello a cui sei passato attraverso.

Com’è stato l’incontro con il resto della band?
Andiamo sul personale… mi ha telefonato Matteo. I Mamavegas erano in cerca di un cantante e un nostro amico in comune gli ha fatto il mio nome, condannandolo per sempre a dover lavorare con me! Ho fatto una specie di provino e l’amore è nato istantaneamente.

L’album Hymn for the bad things è uscito a fine anno e sta avendo un ottimo riscontro: come va l’incontro continuo con “le cose cattive”?
Per ora molto bene… più suoniamo i pezzi più prendono la loro vera forma, crescono, cambiano. E il pubblico sembra apprezzare. Il disco ha avuto moltissimi ascolti, in particolare su Rockit e la gente ora si aspetta di ascoltare i brani nuovi.

Il sound dell’album è internazionale, non per nulla state per uscire anche in Europa e in America: come state vivendo questa nuova esperienza?
La premessa è ottima, ora siamo in attesa. Chi vivrà vedrà, ma sul serio, nel senso che non vi stiamo nascondendo nulla, stiamo aspettando anche noi di capire cosa succederà.

Giorni di pioggia, abeti, terre sconfinate, foreste, alba, stelle, fiori: quanto vi ritrovate nell’incontro con la natura?
Ahah, questa è la domanda da “solita intervista” (ogni tanto ci vuole ndr)! Ma è colpa nostra perché dichiariamo sempre che è un nostro tratto caratteristico e dunque bisogna parlarne. L’incontro con la natura per noi è la fuga dalla metropoli, dalla vita frenetica, che è quella che viviamo tutti e sei tutti i giorni. È la casa in montagna dove sono nati la maggior parte dei pezzi, è l’isolamento dalla eccessiva quantità di informazioni, il tornare a contatto con il sole, gli odori, l’aria. Sincronizzare i respiri con i nostri strumenti ed esprimerci con la musica.

If I bleed, you bleed, if I loose, you loose, but if I go, you stare, useless nature: una visione dell’amore totalizzante?
Questo dovrebbe dircelo Marco, che ha scritto il testo… la mia interpretazione è quella di un forte legame con la Terra, con il pianeta, ma allo stesso tempo della frustrazione che nasce dal fatto che per la vita della terra noi non siamo altro che un battito di ciglia, una parentesi di un millisecondo, con le nostre paure, le nostre sofferenze che a noi sembrano gigantesche. È una canzone che parla di proporzioni, di grandezza e tempo.

Un fuoco nero, che brucia ma che è freddo: una passione devastante che porta anche dolore?
Certamente. La passione brucia in fretta ma lascia un freddo siderale quando se ne va…

L’uomo che vuole superare le paure di For The Bad Things (Hymn), quello che tenta di rimettere insieme i pezzi di Our Love (Tales from Today): da quali pensieri o storie sono nati?
For the Bad Things è quasi l’indice alla fine del libro. È il filo che unisce tutti i discorsi affrontati fino a quel punto. Our Love non a caso viene subito dopo, perché si volta pagina. È il trailer del prossimo film. Non parla più di valori e sentimenti altissimi, ma parla di noi esseri umani, dell’amore fra due persone, è il brano meno simbolico e più realista del disco.

Poi c’è l’uomo perso nei dubbi di Self-Portrait In FourColours (Happiness), quello disilluso di WinterSleep (Faith) e senza speranza di The Stool (Hope) e quello deciso di Sooner or Later (Time)… sembra di vedere un uomo nella casa degli specchi: che ne pensi?
Wow, bella questa interpretazione, me la giocherò nella prossima intervista… sì, è così. C’è l’uomo al centro di questo disco. Quest’uomo si guarda intorno e si riflette nello specchio della speranza, della felicità, dell’amore. E da ognuno riceve un immagine diversa.

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