Da Montreal, ecco un piccolo gioiellino a base di cantautorato digitale, dal tracciato sonoro senza picchi ma emozionante ed emozionale come di rado capita sentire e che vede quale elemento portante Devon Welsh con la sua profonda e vibrante vocalità, affiancato nella penombra da Matthew Otto alle prese unicamente con sinth, piano, organo, pochi effetti e, soprattutto, pochissime note.
Ed è proprio l’aspetto minimal a dare quell’ulteriore qualcosa in più a 10 tracce comunque già molto potenti dal punto di vista melodico ed interpretativo. La netta impressione che si ha è che fin dall’inizio il progetto sia stato indirizzato verso atmosfere sound-sostenibili ed a basso impatto di note, con il duo canadese dedito cioè a lavorare intensamente sulla primissima idea musicale, sul primissimo embrione melodico, cesellandoli e curandoli su piccola scala – alla stessa stregua di un bonsaista – e limitando il più possibile gli arrangiamenti. I Majical Cloudz riescono in questo modo a fermarsi sempre un momento prima dell’eiaculazione sonora, con le tracce che sembrano poter aprirsi ed esplodere da un momento all’altro nella melodia più ariosa e zuccherosa possibile, ma che invece finiscono con l’implodere su se stesse lasciando fluttuare nell’aere poche ma suadenti schegge sonore.
E l’approccio si rivela assolutamente azzeccato visto come riesce ad esaltare un’attitudine melodica innata, elegante, marcata ma mai stucchevole ed un cantato passionale, vibrante e che ricorda parecchio Tom Smith degli Editors (sentire “Mister” per credere), ma che a differenza del quale riesce ad essere più viscerale ed a muoversi su uno spettro sonoro più ampio.
“Impersonator” è un album da ascoltare in loop per intero, più e più volte, magari con un paio di saltuari repeat in corrispondenza di “This in magic”, “Childhood’s End”, “Bugs Don’t Buzz” e “Silver Rings”.