“If you can raise a star / From garbage on the street / Then you can make a modern life / For a modern girl to lead”
Che si aprino le danze con Big TV, terzo album dei londinesi White Lies, seguito di Ritual, pubblicato a inizio 2011.
Anche questo album non si discosta mai dal solito mood triste contrapposto ai ritmi pressanti su cui il trio ha costruito il proprio nome nel tempo, fortificando sia i propri principi musicali che le aspettative del pubblico che, verosimilmente, li segue dai singoloni estratti da “To Lose My Life…”.
Il percorso è già marcato a partire dalla title track quasi-interminabile, dai synth e dalla batteria compressa ancorati dove anche gente come i Depeche Mode mettevano le grinfie tanto tempo fa. Il primo singolo prescelto è There Goes Our Love Again (“I didn’t go far / And I came home / But he said there goes our love again / There goes our love again / Home is a desperate end”) ed è lì che ci accorgiamo che abbiamo sottomano un concept album che, chiaramente, parla di una storia di amore travagliata, di viaggi, separazioni, ricongiungimenti e congiunzioni astrali.
L’astronauta dell’artwork in copertina, dallo sguardo tra l’impaurito e il sorpreso, potrebbe benissimo essere un agglomerato di figure retoriche richiamanti la protagonista: il cosmonauta perso nello spazio, la ragazza, invece, sperduta tra i cambiamenti della vita.
La presenza di due interludi (Space I e Space II) è la novità nella routine musicale dei White Lies. First Time Caller (potenziale singolo) è un altro esempio di onestà intellettuale che è presente anche nelle altre tracce: le atmosfere a cui fanno riferimento i White Lies sono sotto le orecchie di tutti ma, semplicemente, loro non sembrano preoccuparsene visto che riescono comunque ad essere portatori sani di personalità, nonostante permangano invariati i momenti-crescendo incalzati dalla voce di McVeigh, i tempi di batteria, le alternanze di synth che tanto hanno tanto alimentato i paragoni con i vari Interpol o Editors di turno.
Getting Even, dalle parti elettroniche taglienti, è l’antitesi di Change (voce ed effettistica fluttuante per una svolta di quasi cinque minuti di durata) seguita da Be your Man: il ritorno sui binari tracciati in precedenza.
In fin dei conti, la conferma c’è ed l bello del mondo musicale è anche questo: nonostante le ripetizioni e la formula “squadra che vince non si cambia”, al terzo album si può arrivare a testa più che alta anche se, all’inizio, davi l’idea di essere solo l’ennesimo gruppo che voleva copiare i derivati dei Joy Division.
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