È prassi consolidata che quando un membro di una band intraprende la carriera da solista ci sia un ammorbidimento del sound, un’adesione a quelli che sono gli stilemi del cantautorato. A ciò non è inusuale accompagnare anche un cambio di atteggiamento, una tendenza a intellettualizzarsi che spesso degenera in forme di odioso imborghesimento.
Nazarin è il progetto solista di Salvo Ladduca, avviato parallelamente all’attività con i Marlowe, e rompe totalmente con questa prassi: La mattanza dei diavoli, infatti, è un disco potente, ruvido e sanguigno, contraddistinto da un suono affilato e spigoloso, da testi pregni e coraggiosi. Dimostrazione che un disco può essere intimo anche senza essere morbido. I Marlowe fanno parte della nutrita schiera di artisti siciliani che ruotano attorno a L’Arsenale e hanno un‘anima complessa e sfaccettata: si mescolano folk e cantautorato, blues e velleità sperimentali si fondono in uno stile del tutto personale e pressoché unico nel panorama nostrano, con atmosfere a volte sospese e sognanti, eteree, quasi post.
Nazarin è come se fosse una costola che vive di vita propria, la componente folk-cantautoriale è stata messa in piena luce, supportata dall’esaltazione dei suoni più ruvidi e potenti.
Il risultato è un folk d’introiezione, cupo, brutale, poetico e rabbioso. Nel disco è come se convivessero due anime, un attaccamento radicale alla terra d’origine e una contaminazione d’oltreoceano; risuona la Sicilia, ma con un’eco di un folk americano sporco, elettrico e distorto. Rispetto ai dischi dei Marlowe c’è una direzione più marcata, con riferimenti ben chiari e definiti: c’è l’Australia di Hugo Race, ovviamente si sente Cesare Basile, ma, nei momenti di maggiore spinta, certe soluzioni possono ricordare gli Wovenhand. Nazarin si sporca le mani nella terra e nella polvere, si immerge nel fango, fa i conti con la carne e con il sangue.
L’ossessiva e incalzante Radice mangia radice è il primo singolo estratto e ricorda il repertorio più tosto del mentore Cesare Basile: Strofe della guaritrice, Fratello gentile e Storia di Caino, per fare qualche nome. In generale, vi è anche in comune il tentativo di recuperare il legame originario con la terra e la carne, di esplorare le viscere, gettare lo sguardo negli abissi interiori e nella realtà che ci circonda.
Ci sono poi canzoni che colpiscono per la loro potenza (la chitarra infuocata ne la titletrack, le percussioni di Veglia sui nostri figli) e altre per la loro profondità più classicamente cantautoriale (Un intero giorno e Per quello che ho fatto, delicate e sofferte, e Tre lune, più vicina alle coordinate musicali dei Marlowe, con atmosfere soffuse, sospese ed evocative). Sugli aghi è invece un pezzo deciso, ma con ampio respiro: chitarroni che farebbero invidia agli Wovenhand si alternano a momenti più pacati e intimistici. Il capolavoro del disco è sicuramente Una preghiera semplice, brano dominato dal suono del violino, struggente e straordinario come se uscisse da un disco dei Dirty Three o degli Willard Grant Conspiracy.
In chiusura, è d’obbligo dire qualcosa sui testi, suggestivi e visionari; un uso delle parole coraggioso e mai banale, parole intrise di vita vissuta e cariche di senso. Si percepisce un’urgenza di esprimersi e comunicare, caratteristica di chi ha qualcosa di profondo da dire. Davvero un bell’esordio.
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