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M’Importa ‘Na Sega #7: PIET MONDRIAN – Misantropicana

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È giovedì ma io no. L’unica rubrica derubricata in partenza nasce in un giorno di neve fitta sull’appennino e di pioggia stronza dentro casa mia.
Per interrompere il conato di bestemmie in corso ho pensato di aver bisogno di fare una cosa bella e inutile.
Come questa, ossia raccontare attraverso particolari storie (quanto più possibile non troppo note) di musicisti, dischi, canzoni e concerti, prestando ad essi ulteriori spunti a tema, equivoci maldestri e ricami personali con pretesa assoluta di incompletezza e strettamente ove impossibile e fuorviante, come fosse antani.

M’Importa ‘Na Sega #7: Classic (ma solo per me e il mio cane) – Piet Mondrian, Misantropicana

misantropicana1“Scendere e salire scale, mettere da parte cose” cantanto i Piet Mondrian.
“Un corpo”, ovvero cose come questo piccolo inno generazionale in forma canzone, dolceamaro e con un testo stralunato ed eccezionale, tra corde carezzevoli che suonano come un orologio a pendolo che scandisce il nostro ritmo interiore, ristorazione il fine settimana e parcheggi in grado di cambiare il mondo.
Ero partito con l’idea di scrivere di una canzone, “Un corpo” perl’appunto, e finisco col parlare di un disco dei Piet Mondrian, l’esordio di “Misatropicana” datato 2010. Vuol dire che c’è della stoffa e il merito di catturare chi ti ascolta con assist di pregevole fattura.

E poi come non amare chi vuole “sterminare la gente di carta” e chiede mine anti uomo a Gino Strada, chi ha il gusto perenne del divertissement e ha l’istinto della dissacrazione, chi sa adattare la musica alle parole con mestiere insolito per un disco d’esordio, sapendo esser minimale e claustrofobico all’occasione giusta? Vi dico una cosa: questo disco ha fatto girare le palle a tanti presunti alternativi a caccia di un testamento generazionale da scrivere prima di Michele Baldini e Katrina Polidori, in arte, all’epoca, i Piet Mondrian. Perchè non c’è gusto in Italia ad essere intelligenti, direbbe Freak Antoni. E loro lo sono talmente tanto, da riuscire nell’impresa di prendere per il culo tutto e tutti e suonare anche terribilmente seri e demoniaci (“Apocalippo”!).

I Piet Mondrian sono un duo, ora trio, di San Miniato, che attraverso un’ironia misantropica e sottile, e testi, mi ripeto, davvero sopra le righe, intonano piccoli crisantemi di provincia con soluzioni musicali assai diverse tra loro, dall’elettronica a spruzzate di wave, fino a toni cantautorali, in sostegno e mai sopra questa critica alla realtà ora burlesca ora seria, ch’è poi in definitiva, il tratto davvero peculiare di questo gruppo mai banale.
Li chiamano gli Offlaga Disco Pax toscani e chi lo fa non racconta favole, ma sono qualcosa di meno strutturato e più eterogeneo, e anche di assai migliore rispetto a cacofonie sgradevoli alla Luci della Centrale Elettrica ed altri esperimenti di cui si può dir tutto (e bene dei testi) tranne che vi sia musica o qualcosa oltre ad uno scadente plagio di Billy Bragg. Piuttosto, echi di Elettronoir, per quell’intelligenza compositiva di fondo che unisce anche stili musicali non sempre accostabili.

Qui la musica c’è e funziona, provare per credere con un altro brano eccellente , “L’uomo credo che per natura sia qui” con una intro flautistica originale ed altre sonorità di personalità, continuando poi con  “Ho votato Lega” dove si alza il volume e il freddo cinismo di fondo, “Report 1?, tra desideri di sterminio e un loop avvolgente, e la ninna nanna post moderna che del carillon ha tutto il sapore, ma non il suono, di “Lascia Perdere”. Una prima parte di disco eccezionale, con l’unica pecca d’una qualità complessiva dei brani che tende a scendere, invece che a salire o equilibrarsi. Ma la coerenza interna, al di là dei singoli brani, è talmente alta da far percepire il disco come qualcosa di più della somma delle sue singole parti, prerogativa di ogni ciambellalbum uscita col buco. E che bella, comunque, la conclusiva “Dogma”, accorata e delicata riflessione sociologica, la meno irriverente del lotto e stavolta è un merito, una summa a cappello di un lavoro che altrimenti poteva dar limpressione di voler sparare, si, ma solo a salve. Quel violino, quei tasti accennati del finale, non sono che la contemplazione delle ferite comparse sul corpo di chi, a ragione e con merito, si è graffiato e colpito lungo 13 tracce.

Qual’è il miglior merito di quest’album? Non essere per tutti.
“La crisi chiama, la crisi vuole, la crisi attende facce nuove”. Eccole.
E, vecchi fascisti d’Italia, levatevi veramente dalle palle, o una risata intelligente, misantropica e ben musicata , vi seppellirà.

[youtube]https://www.youtube.com/watch?v=YMfJ5FJTWhE[/youtube]

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