Ogni squarcio provoca una cicatrice. Sicuro. Sì. Squarcicatrici e il jazz tutto loro. O tutto da ogni dove. Prendere e mettere in un sacco, agitare, pescare, rimischiare, creare con forza/violenza. Secondo album? “Zen Crust”.
Mischiare sensazioni e fare male mentre lo si fa. O lenire sfondando i timpani. Dedali sonori e altro ancora? Sì, di nuovo. É così che Jacopo Andreini e i suoi soci ci sfregiano. E lo fanno senza pietà. Perché averne quando si parla di musica? Delineare un percorso illuminato da tutto. Si passa da paesaggi di pura “corda” e calore, violoncello, basso e dolore latino (“Jardim da Estrela” si trascina nella calura di città deserte) a sberle a metà tra Mulatu Astatke e Masada (quanto godere in “Bilaa jawaaz safar” con i suoi passaggi elettrici e fangosi). E mentre spaventosi rantoli vocali si distendono su un tensivo medio oriente (“Apopse pethainei o fasismos”) psicopatiche marcette di paese in freedom si stagliano su distese atonali (“Fremente” mi incarta il cervello) arrivano coltellate nakedcityiane tra gli occhi (“Pont des Arts” e le sue fughe di sax, ciao proprio). Tutto scorre, niente fa rallentare il ritmo del disco, che alle mie orecchie è tutt’altro che ostico, nemmeno virulenti inserti elettronici che sbucano senza preavviso (“Saffo’s Wedding Party”, i ritmi spastici di “Affrico”) o staffilettate di ruggine hardcore (il treno elettrico di “Jours d’amandes” che si schianta alla stazione del canto francese).
“Zen Crust” è così, è un disco senza pace, senza tregua e, come dicevo all’inizio, senza pietà. Esce per Tzadik? E invece no. Escape From Today.
Perdetevi in questa freedom psychjazz dance, dai, che ogni tanto fa bene.
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