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M’Importa ‘Na Sega #13 – MAYO THOMPSON – Corky’s Debt to his Father

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È giovedì ma io no. L’unica rubrica derubricata in partenza nasce in un giorno di neve fitta sull’appennino e di pioggia stronza dentro casa mia. Per interrompere il conato di bestemmie in corso ho pensato di aver bisogno di fare una cosa bella e inutile. Come questa, ossia raccontare attraverso particolari storie (quanto più possibile non troppo note) di musicisti, dischi, canzoni e concerti, prestando ad essi ulteriori spunti a tema, equivoci maldestri e ricami personali con pretesa assoluta di incompletezza e strettamente ove impossibile e fuorviante, come fosse antani.

M’Importa ‘Na Sega #13: Classic (ma solo per me e il mio cane) – Mayo Thompson, Corky’s Debt To His Father.

Avvertenza: non proseguite oltre se non siete disposti a riconoscere a Mayo Thompson lo status di genio musicale. Fondatore e leader dei Red Crayola, gruppo d’avanguardia rock tra i massimi complessi psichedelici di tutti i tempi – se non conoscete “Parable of an Arable Land” fate penitenza – è stato produttore di gruppi come Fall, Cabaret Voltaire, Stiff Little Fingers e membro dei Pere Ubu. Le sue ultime collaborazioni registrate sono con alfieri del nuovo corso della storia della musica, come Jim O’Rourke, Gastr Del Sol, Tortoise, a testimoniare la duttilità estrema d’un musicista sempre capace di accompagnare le più fresche innovazioni in musica, lasciando la propria impronta.

6748752_1“Corky’s Debt to his Father”, sepolto nel 1969 e rispolverato dai non pochi maniaci internauti che ne sono follemente innamorati, è un disco frutto della fine della prima fase Red Crayola, in cui Mayo deve aver sentito il bisogno di abbassare il volume, allontanare le cacofonie ed invitare se stesso a comporre qualcosa di più personale, con meno lavoro intellettuale e più spontaneità e semplicità compositiva. Un “collage di canzoni pop, ritmi bluegrass ed effetti psichedelici”, in una stagione in cui il cantautorato folk era il mantra d’una generazione intera.

Il canto è spesso trasognato e leggermente dissonante, inducendo un effetto d’agreste ipnosi e fascinazione per le terre rurali e svanite che Mayo sembra cantare. Immaginate Syd Barrett prima del salto definitivo verso l’abisso della sua mente, imbracciare una chitarra in un verde prato texano, con un cappellaccio ed una sudicia camicia indosso.

Country psichedelico, come per il primo episodio di “The Lesson”, marcette divertite che danzano su se stesse con “Oyster Thins”. Ma la verità è che questo disco è molto di più d’un disco di Barrett essendo però privo della tragica intensità allucinata del matto cappellaio che ride. Seconda verità, storica, Syd farà l’ultima abbuffata di LSD dopo questo album, che ne precorre però gli umori.
Intanto, scorre “Horses”, in un disco che passa dall’easy listening a sprazzi di fino ricamo cantautorale in un Amen.
“Dear Betty Babe” si eleva all’ìnterno del disco, sospesa in un incanto ultraterreno. Mayo non si diverte più, il suo canto si fa delicato ed ingemma un inno d’amore lanciando miele acustico al cielo che lo sovrasta, con fiati che rannuvolano l’ispirata ed astrale voce del nostro, dolcemente manchevole di una tonalità adeguata.
Il folk intimista, pur saltato in padella con l’imprescendibile country del Texas, si schiude docile con la bella “Fortune”, figlia di una perfetta armonia tra piano chitarra e voce, nella composizione più “regolare” dell’intero disco, una ballata da sogno con cui varcare la Desert Highway a stelle e strisce durante il tramonto.
E’ un disco comunque impregnato di blues, dall’incalzante “Venus in the Morning” alla sussurrata e scarnificata “Black Legs”, un blues nato dalle radici più più profonde di quella che non a torto è considerata la “musica dell’anima” d’un popolo che ha fatto della sofferenza la sua unica compagnia per ben più d’un secolo, sino a “Good Brisk Blues”, “un fiume in piena, che prende Bob Dylan e lo fa interpretare da Nick Cave e dove la voce cantilenante del primo vive della tensione del secondo, supportata da una scheletrica struttura ritmica ed un inquieto pianoforte”. Ma il blues è uno strumento espressivo, e non il sottofondo umorale dell’opera, che infatti percorre nuove strade nella riuscita parte conclusiva.
“Around the Home” è un crudo vaudeville sulla disumanità della nuova era della società americana, in cui ci si prende gioco delle nuove alchimie della modernità col dolente languore dei fiati di chi si è tagliato fuori dai giochi, ma non può evitare di contemplarli.
“Worried Worried” è un rabbioso ultimo graffio della pantera che cresce vorticoso ma senza prendersi del tutto sul serio, attraverso il trascinante trasporto espresso del piano e delle percussioni, cabina di guida d’un treno che invece di sbandare, giunge fresco col suo messaggio di viva protesta in destinazioni ove per di più viene ignorato, che poi è il destino di questo disco, incredibilmente ritenuto minore, in un epoca che aveva un solo problema: l’abbondanza di talento.

Un disco da ascoltare, usando le parole dell’autore nella seconda traccia, “beacuse it’s nice to be here with you and there’s no need to be blue”.

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