Concedetevi un viaggio senza muovervi di casa. Staccate la spina dal mondo, almeno per una sera: non ci siete, non ci sarete per nessuno mentre ascoltate o ascolterete questo disco. La realtà non esisterà in questo lasso di tempo. Ci sarete solo voi e Brian Blade. Tutto il resto è nulla.
Alla batteria c’è Brian Blade. Poi abbiamo Jon Cowherd al pianoforte, Myron Walden e Melvin Butler ai sax, Chris Thomas al contrabbasso e Marvin Sewell e Jeff Parker alle chitarre: la fedele The Fellowship Band che accompagna il batterista dal 1997. Tradizionale ma allo stesso tempo innovativo, Landmarks è un esempio di ottimo jazz contemporaneo. La dimostrazione di come questo genere sia eterno, nonostante l’avvento della tecnologia. Landmarks è un quadro completo del settore. Fondamentalmente ambient, il disco passa da momenti più fusion come Ark.La.Tex, “suite” di undici minuti all’inizio cupa e darkeggiante ma via via sempre più virtuosa e distorta con il sassofono penetrante e lunatico, a momenti più hard bop alla Sonny Rollins come He Died Fighting. Di base morbido e leggero, Landmarks prende pieghe più aspre, più frizzanti e più “free”, alternando atmosfere noir con scenari più allegri, la pace con intense battaglie. Brano veramente degno di nota è Farewell Bluebird, altra “suite” che sfocia addirittura nel blues e in sonorità più elettriche, passando prima per il bebop e lo smooth jazz. Brian Blade e soci sanno come plasmare elementi diversi tra di loro, attraversando (per l’appunto) i confini tra un sottogenere e l’altro. Altra chicca del disco è Friends Call Her Dot, delicata, profonda e seducente.
Brian Blade e la Fellowship Band vi porteranno in un’altra dimensione, riuscendo a calmare i vostri nervi e scavando interiormente. La medicina giusta dopo aver passato una gran brutta giornata. Spengete tuttò ciò che vi circonda e abbandonatevi alle dolci note di Landmarks.
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