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M’Importa Na Sega #20: ROBERT WYATT – 5 Black Notes and 1 White Note

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È giovedì ma io no. L’unica rubrica derubricata in partenza nasce in un giorno di neve fitta sull’appennino e di pioggia stronza dentro casa mia. Per interrompere il conato di bestemmie in corso ho pensato di aver bisogno di fare una cosa bella e inutile. Come questa, ossia raccontare attraverso particolari storie (quanto più possibile non troppo note) di musicisti, dischi, canzoni e concerti, prestando ad essi ulteriori spunti a tema, equivoci maldestri e ricami personali con pretesa assoluta di incompletezza e strettamente ove impossibile e fuorviante, come fosse antani.

M’Importa ‘Na Sega #20: ROBERT WYATT – 5 Black Notes and 1 White Note

robert_wyatt1“Ruth is stranger than Richard” è un enigmatico album sperimentale del 1975, un’espressione artistica ben lontana dall’essere opera totale come la precedente e celebre “Rock Bottom”, anche se può esser arduo crederlo se si pensa alla statura assoluta dei musicisti coinvolti nel progetto, due per tutti: Brian Eno e Mongezi Feza.

Lo stesso autore dichiarerà: «Non sono stato mai del tutto soddisfatto di “Ruth Is Stranger Than Richard”. La mia idea originaria era quella di un trio con Mongezi Feza e Gary Windo ma non potei portare a termine il disco nel modo desiderato. I soldi erano un problema costante per me. Sai, invidio davvero scrittori e pittori, che possono lavorare e sperimentare per ore e ore con il solo ausilio di una penna, un foglio di carta, qualche spicciolo, una tazza di tè e un panino. Lo studio è costosissimo e io non mi sento a mio agio».

Tuttavia, all’interno di questo album complessivamente non imperdibile di Wyatt, in cui si riprendono vecchi spunti (“Soup Song”, “Team Spirit”) e si piazzano pallide cover (“Song for Che”) è contenuto un rubino strumentale, tuttora misconosciuto, che risponde al nome di “5 Black Notes And 1 White Note”, un’aria del compositore ottocentesco Jacques Offenbach arrangiata da Wyatt.

Imbalsamata in una placida atmosfera di percussioni, tastiere e synth e con uno struggente sax che “gonfia” il pezzo d’una disperante malinconia, la canzone si chiude con un ipnotico finale sperimentale intervallato dal solo ultimo e lacerato sussulto fiatistico, che ci riporta, boccheggianti di languore, al clima nostalgico che pervade ogni singolo istante dei cinque minuti appena trascorsi. Cinque tra i più disperatamente caldi ed eleganti minuti della discografia dell’autore.

Un brano che più che al Wyatt delle improvvisazioni “totali” coi Soft Machine di “Third”, ci porta alla mente quello crepuscolare, delicato e fiabesco di Canterbury e dei Matching Mole. Una morbida marcia onirica, densa di spirtualità ed addolcita da una commovente atmosfera di straziante devozione alla vita, un atto di fede nella dignita dell’uomo, tra le più alte e poetiche espressioni in musica dell’esistenzialismo post-industriale che il 20esimo secolo abbia udito, finendo però per non ascoltare.
Infine, se v’è qualcosa di magico che traspare in questo brano, è proprio l’angelica presunzione che l’incedere umano, nonostante sia capace di tali bagliori, non abbia alcun intenzione di recuperare la musicante lezione dell’oblio, per volgerla in luce ispiratrice dei secoli a venire.

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