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EINSTURZENDE NEUBATEN – Auditorium Rai, Torino, 29 novembre 2014

Einstürzende-Neubauten

L’Auditorium Rai si tramuta in una macchina del tempo. Piloti sono gli Einstürzende Neubauten. La destinazione è il periodo che va dal 28 luglio 1914 all’11 novembre 1918. Prima Guerra Mondiale, o la Grande Guerra. Un immenso dolore. Un lamento. Ed è ciò che costruiscono (e decompongono) i nostri durante questo spettacolo.

Che poi..spettacolo..un’installazione da palco, una performance di degrado e abisso, questo è “Lament”, ossia ciò che avverrà di lì a breve nella macchina del tempo di cui sopra. Mai un luogo adibito a “solomusicaclassica” o poco altro di buono vedrà (nel nostro retrogrado Paese) una simile acciaieria sul palcoscenico. Il tavolo d’acciaio posto al centro del proscenio è subito vittima del gigante Hacke (che dell’eleganza solita della band si fa beffe col suo doppiopetto smanicato a mostrar all’audience i tatuaggi che campeggiano sulle enormi braccia) che prende a graffiarlo e a lanciarci sopra materiale d’ogni tipo, raggiunto immediatamente da Unruh che si unisce alla festa mentre Blixa mostra al pubblico cartelli riportanti una summa di ciò che la Grande Guerra (o la guerra in generale) è, era, sarà.
Il tempo è circolare e al digrignar di denti di “Kriegsmachinerie” fa spazio il coro di “Hymnen”, coadiuvato da un quartetto d’archi piazzato in mezzo alla fabbrica del disagio.
Blixa è un gigante gelido, Hacke è il suo contraltare di magma, quando suona sembra debba spaccare tutto, a mò del miglior bassista heavy metal in circolazione, e anche quando canta è tutto preso dal delirio, ma quando s’incontrano queste due correnti si forma qualcosa di unico (“The Willy – Nicky Telegrams” e il suo autopitch vocale).
La macchina del tempo diventa ipnosi pura, il pubblico il più delle volte è rapito al punto da non sapere se applaudire o meno, ma è normale, è questo che prova la gente da che ci sono questi signori a divelgere i palchi. “In De Loopgraaf” è arcigna e la vista della barb-wired harp mi lascia sbaccalito, nonostante la foto sul libretto del disco mi avesse lasciato già perplesso, vederla live è altra cosa, e Unruh se la suona in allegria, nell’imperfezione di perfomare con delle bacchette su un filo spinato, così come la follia di tubi di “Der 1. Weltkrieg (Percussion Version)” con Hacke, Unruh e Rudi che battono impietosamente su ognuno di essi segnando ad ogni beat un giorno di guerra mentre Blixa entra con precisione allucinante (dai…è allucinante…senza click né nessuna vera divisione melodica o ritmica come cazzo fai a districarti su un pezzo simile?) e fornisce un elenco completo dei Paesi coinvolti nel conflitto. “Achterland”, che come si premura di dirci Blixa significa hinterland ossia quel posto più “al sicuro” in cui si rifugiavano i feriti per ottenere adeguate cure, è segnata dall’introduzione delle stampelle amplificate ed elettrificate portate fieramente da Hacke in giro per il palco e che, di lì a breve, verranno suonate tramite un archetto, mentre Rudi picchietta su tubi di diversa dimensione creando un sottobosco di paura e non-sicurezza, e l’aria che fuoriesce dai compressori è bordone sintetico ad una voce di puro terrore.
Ed è dall’hinterland che nasce la sorpresa, parte “Armenia”, più morbida ma non meno spaventosa dell’originale, in reverse, carezzata dall’aria del deserto e dalle grida disumane di BB. Senza pace Hacke torna ad essere il bandleader per “On Patrol In No Man’s Land” mentre il resto della band gli fa da coro, trasformano il jazz in affare da industria siderurgica, perfetti su un tempo indecentemente storto, in una pesantezza emotiva che torna prepotente sui tre movimenti di “Lament”, strappano il cuore dal petto, in un crescendo di cori in loop, ogni membro è un tassello di una melodia che tocca i recessi dello spazio vuoto e profondo ferito da un carro armato industrial e distorto che impone la sua possenza, come il mostro della guerra, un’armata mortifera e raggelante che si schianta nel terzo movimento: Rudi, Arbeit, Unruh, Hacke e Bargeld portano tra le mani un oggetto che riproduce le voci registrate dei prigionieri di guerra in Germania, lo spettro s’innalza e il cuore è strappato dal petto.
Dopo la deboluccia e teardiana “How Did I Die” si passa ai bis di rito, Bargeld torna sul palco ornato da un giaccone di carta e attacca con l’altra opinabile del disco “Sag Mir Wo Die Blumen Sind” ma la nebbia si dissipa su una versione distruttiva di “Let’s Do It A Dada”, ipercinetica imperiosa industrialità del dolore, e mentre suona un vinile piazzato su un trapano mediante un bicchiere Blixa proferisce il verbo: “Ah! Signore Russolo e signore Marinetti, from Abissinia, how is the Duce?” e via di schiaffoni.
Chiude il bis “All Of No Man’s Land Is Ours”, un po’ sottotono come finale forse…e invece i nostri burloni tornano sul palco, si siedono tutti dietro a tubi e percussioni, impugnano i compressori, si fanno delle battutine, Hacke da il tempo e parte impetuosa “Ich Gehe Jetzt”, io a questo punto penso di morire dalla gioia e mi godo gli ultimi minuti di disagio.

Le luci si accendono e torniamo nel 2014, un po’ più feriti di prima, ma sicuri di una cosa: . Scrivete voi ciò che volete.

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