Chi malauguratamente dovesse ritrovarsi a scrivere di Robert Wyatt (pseudonimo di Robert Ellidge) sarebbe costretto a buttare giù talmente tanti riferimenti, elementi caratterizzanti, porte aperte e portoni sfondati che il tutto, in una situazione normale, si ridurrebbe ad un infinito elenco puntato. Figuriamoci, poi, nel caso di “Different Every Time”, raccolta in due dischi a dir poco variegata e per niente scontata, pubblicata con lo scopo di essere affiancata ad una lettura della biografia autorizzata scritta da Marcus O’Dair.
Volendone sapere di più, magari ordinando una bella copia della suddetta biografia, vocabolario d’inglese alla mano, si leggerebbe di un genio poliedrico classe ’45, sperimentatore, stupratore della suddivisione tra generi e stili, batterista e percussionista, cantante e tastierista, musicista decisamente jazz ma che per umilità (forse) o per sana onestà intellettuale (più probabilmente) non si definisce jazzista. Del jazz, però, Wyatt assorbe la gestione dello spazio e la predisposizione all’improvvisazione vocale e strumentale, della psichedelia le atmosfere e le modulazioni melodiche, sporcando il tutto con una buona dose di elettronica, incursioni world e funk, e dando a questo blob una strabiliante e sempre cangiante forma progressive. Se Frank Zappa facesse un frontale a 100km/h con Daevid Allen dei Gong, unito alle urla dei Weather Report, in quel momento in procinto di attraversare la strada, il suono dell’urto si avvicinerebbe all’esplosione Wyatt, per intenderci.
“Moon in June”, opera dei Soft Machine (gridiamo insieme: God bless Canterbury!) che sfiora i 20 minuti, apre “Ex Machina”, primo disco della raccolta. Inequivocabile questa si erge a manifesto stilistico, a sinfonia malata di un male incurabile denominato “sperimentazione selvaggia” che Robert ha sempre portato con sé anche dopo l’abbandono della storica band. Il resto è psichedelia sfrenata, fiati sprezzanti (“Team Spirit”) ed evocativi (“Just As You Are”), escursioni ed improvvisazioni vocali (“A Last Straw”), atmosfere dream-pop sospese a cavallo tra sogno e infinito (“At Last I am Free”).
Decisamente più world (vedi “Frontera”), jazz e – si fa per dire – easy-listening il secondo disco. “Benign Dictatorship” racchiude in sé meravigliose ed improbabili quanto rare collaborazioni (Cristina Donà?!) tra il nostro ed una serie sterminata di artisti.
Apre lieve come neve che cade e fiume che scorre “The River”, in collaborazione con la cantautrice svedese Jeanette Lindström. Rhodes ed echi di chitarre sostengono la voce di Wyatt che si fa qui morbida coperta per il più freddo degli inverni.
Non da meno il soul-jazz di “The Diver”, brillante dialogo tra il calore limpido di Anja Garbarek e la delicatezza quasi sussurrata di Robert.
Il visionario canto di “Submarine” (Bjork) e la sola voce di Wyatt in “Experiment n.2” (testo di E. E. Cummings musicato da John Cage) sono l’ennesima dimostrazione di una vena creativa inesauribile, di un cuore che ha sempre pompato al limite della tachicardia, di una profondità irraggiungibile ma, con questa raccolta per estimatori e nuovi adepti, fortunatamente a portata d’orecchio.
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