Per Justin Pearson la vita fuori dai The Locust ha significato un vero e proprio macello senza pace. Una quantità notevole di progetti di breve durata ma dal distruttivo impatto (anti)emotivo. Nulla da eccepire, il mondo del punk post-atomico è zeppo di queste anime tormentate, e nel caso di Justin sembrava quasi d’avere a che fare col Mike Patton dell’hc del nuovo millennio: mai fermo, mai sazio, sempre carico.
Nel 2011 il Nostro da vita, assieme all’altra locusta Gabe Serbian, al progetto che sembra far fermare questo nomade nervoso, ossia i Retox. Proprio quell’anno esce “Ugly Animals” (e Patton non l’ho citato a caso visto che il disco esce per Ipecac) e ascoltandolo pensi “cazzo, i The Locust – grind + punkhc, comunque feroci”. Tutto molto bello ma chissà se durerà. E invece dura: seconda cartuccia sparata nel 2013 con “YPPL” che mostra il lato dell’evoluzione, irrobustisce il suono e la cattiveria ma dice addio a Serbian per far spazio a Brian Evans.
Arriviamo ad oggi ed ecco la terza cartuccia che prende il nome di “Beneath California”. Siamo alla svolta vera e propria. Quello che si fa spazio nel nostro condotto uditivo è un disco da psicosi pura, non è più solo un treno in corsa sui binari del rumore, è una commistione di delirio nel discorso hardcore. E così al fianco di sfuriate senza controllo come “We Knows Who’s The Prick”, che mutuano all’interno della propria struttura un feroce gusto noise a incastro multiplo, troviamo il controllo psicopatico della misura rock’n’roll di “Die In Your Own Cathedral” o la disperazione progressive (ascoltare il riff per credere) che permea “The Savior, The Swear Word”, e ancora il tensivo tribalismo marcescente di “Let’s Not Keep In Touch” (dal gustoso video con un Greg Puciato armato di mazza da baseball e di non troppo buone intenzioni nei confronti del chitarrista Mike Crain). Proprio in questi due brani anche la voce di Justin prende pieghe differenti, abbandonando la deriva screamo per diventare piena e plumbea.
Anche quando torna il tomento grind la situazione prende le distanze dal recente passato, è più ragionata e più stronza che mai e “The Inevitable End” è qui per dimostrarlo con il suo incedere gloomy e tritanervi, così come gli spettri post-punk di “Death Will Change Your Life” o il deadkennedysmo post-moderno di “Wooden Nickels”.
Quello che ci infilzano tra le sinapsi i Retox, dunque, non è un disco per a) passatisti che s’induriscono alla parola “old school”, b) adepti della nuova scuola del niente e c) per gente sana di mente.
Bentornati.
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