Dagli anfratti più grigi e biechi della provincia italiana (Vercelli per la cronaca) arriva e lo stoner’n’roll caldo e furioso dei Rootworkers, quartetto al debutto su lunga distanza con l’omonimo album.
In una sorta di dichiarazione d’intenti chiara fin dal nome di battesimo (un battesimo di sangue, obviously), i nostri lavorano forte sulle radici del genere, macellando il concetto di “vintage” in una gagliarda e sanguigna sequenza di letali assalti all’arma bianca in cui lo stoner di cui sopra si mischia a più riprese con la foga dell’hardcore e con l’originaria istintività del garage più seminale.
Senza l’ingombrante scure dell’innovazione a pesare sulle teste dei 4 Rootworkers – quelle esposte in bella vista nell’orrorifico artwork ad opera di Alessandro Pagliasso – ciò che conta in questo lavoro è esclusivamente fare del male: dall’opener, la motorheadiana “Jazztimulation”, alla chiusura, affidata alla sabbiosa ballatona “Boris In Too Deep”, si susseguono una serie di schiaffoni diretti ed efficaci a formare un fight club di rock’n’roll bastardo che sa essere sia concreto e fiammante (“Wood Pussy” o la già citata “Jazztimulation”), sia acido e dilatato (“Red Cheng Is Bledding” o “The Ballad Of Shitty Tex”). Il tutto, tenuto insieme egregiamente da una voce sempre piacevolmente sporca, rabbiosa e luciferina, sguazza con furore in una palude di suoni grassi e senza fronzoli che sanno di proletariato e canottiere sudate come pochi.
Un disco, stronzo e finalmente italiano, che colpisce a morte e infierisce sulla carcassa putrescente di chi va in giro a dire che il rock è morto.