<<Io so che questa lunga canzone è racconto di pupari, ladri, cantastorie, travestiti innamorati di Cristo e saltimbanchi della barricata. Un’invettiva di cenci intrecciata ai nomi di chi un nome non ce l’ha, non ha appartenenza né ingaggio, prestazione o valore di scambio. Tessuto di esistenze abusive e ferocemente viventi che, a differenza dell’uomo civilizzato, si mescolano a faccende d’impiccati rifiutando il commercio della corda. Canzone d’amore, sottratta a debito e colpa, che non chiede permesso d’esser cantata»
Queste sono le parole conclusive con le quali lo stesso Basile ha presentato il suo album un paio di mesi prima che uscisse. Tu prenditi l’amore che vuoi e non chiederlo più è un disco che racchiude l’intero cammino che Cesare Basile ha percorso negli ultimi anni, dal 2008 a oggi; con Storia di Caino, Sette pietre per tenere il diavolo a bada e il S/T. Si consolidano certe urgenze comunicative che erano iniziate a emergere negli ultimi lavori: il ricorso al dialetto catanese, il racconto di storie di Sicilia, attraverso le figure degli emarginati, degli esclusi, di chi non si è lasciato dominare; di chi è sempre l’altro, in quanto avuto il coraggio di non essere prigioniero di un lavoro che ingabbia, suddito di una legalità che incatena. Le vicende di Caino e dei Nunzio, ieri; di Orazio Stano e Franchina, oggi.
È un disco che racconta storie, ma anch’esso è una storia: storia di sottrazione e resistenza, riappropriazione e libertà. Resistenza ai meccanismi del potere e ai sistemi dominanti, sottrazione alle mode e alla Siae; riappropriarsi della propria terra, degli spazi di espressione, della lingua d’origine, e la libertà di cantare vicende dimenticate, di raccontare la Sicilia in tutte le sue meraviglie e in tutte le sue contraddizioni.
Quella di Cesare Basile è una “canzone che non chiede permesso d`esser cantata”, che scappa dai padroni e narra di chi non ha mai piegato la testa. E lo fa nel modo che al cantautore catanese riesce meglio, con un blues rugginoso che incontra il canto popolare, che ha fatto il giro d’America e i conti col grande cantautorato italiano, per poi radicarsi nella terra d’origine e gettare lo sguardo al di là del mediterraneo, rubando qualche atmosfera berbera.
Gli emarginati, gli sconfitti, i cantastorie, popolano questo album di undici tracce, tra pezzi potenti (Libertà mi fa schifo se alleva miseria) e pezzi sussurrati (U chiamunu travagghiu), tra arrangiamenti essenziali (Araziu Stranu) e altri ricchissimi (il valzer con retrogusto gitano di Franchina; oppure Manianti, che lascia a bocca aperta chi precedentemente aveva avuto la fortuna di ascoltare il pezzo dal vivo con sola chitarra).
A pochi mesi dall’uscita di Canciari Patruni ‘Un E’ L’bittà – di Salvo Ruolo, produzione artistica proprio di Cesare Basile -, esce un altro grandissimo disco che parla della Sicilia, in siciliano, confermando la fecondità, anche musicale, di questa terra meravigliosa; nonché l’importanza culturale di una realtà come quella dell’occupazione del teatro Coppola di Catania.