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MATTHEW E. WHITE – El Barrio, Torino, 29 aprile 2015

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Matthew E. White è uno degli astri più luminosi della rinascita musicale degli anni ’10, tra i migliori esponenti di quella onda di musicisti ispirati da un culto nostalgico e revivalista per il passato, dai ’60 ai ‘70, da Memphis alla West Coast. Il suo disco del 2012, Big Inner, era stato uno dei dischi dell’anno per molti musicofili, sospeso tra la vena autoriale ora di un Van Morrison ora di un Curtis Mayfield e immerso nello spirito della grande tradizione americana nonostante un piglio affine a tutto il meglio della cultura indie. Con orchestrazioni degne di un Van Dyke Parks e complice anche la curiosa storia della comunità di musicisti di cui fa parte (che operano convivialmente e lontano dalle luci della città), il disco è stato un successo totale di critica. Il nuovo disco Fresh Blood non ha l’immediatezza e l’urgenza espressiva del precedente, ma matura uno standard compositivo di classe e grazia assoluta e rara, virando verso Marvin Gaye e Shuggie Otis (che già cinquant’anni fa unì musica bianca e musica nera, musica colta e musica pop) ed elargendo tributi che vanno da Philip Seymour Hoffman (Tranquillity) a quelli messi in mostra al concerto di Torino con magia totale di Sail Away di Randy Newman e una Are You Ready For The Country di Neil Young letteralmente trascinante.

Musicista e compositore di un altro livello rispetto al 99% dei colleghi, nel concerto di Torino si presenta in un inedito duo con la strepitosa spalla, alla chitarra, di Alan Parker. Non c’è quindi traccia della big band e dunque del soul vagamente psichedelico e pieno di sfumature jazzy; il barbuto ragazzo di provincia sfoggia un’attitudine da loner canadese (ogni riferimento a Neil Young non è casuale) che pur sfuma nell’ironia sorniona che offre di se stesso in qualità di icona. Non il concerto dell’anno, ma l’esperienza della sua persona e un saggio della sua discografia, il tesoro che ognuno porta a casa questa notte: se senz’altro tutto il pubblico in sala avrebbe preferito l’esibizione della band al completo e all’inizio il duo faccia fatica a “tirare”, poi ingrana la marcia e per l’arco di una manciata di canzoni crea in alcuni stralci tanto suono quanto era lecito aspettarsi per via della manchevole comunicazione della formazione della band che ha accompagnato l’evento. In particolare le cover già menzionate, Big Love e Holy Moly valgono il prezzo del biglietto, ma gli applausi scroscianti sono dovuti anche al mood divertito del duo, che se ne sbatte della scaletta preparata e asseconderà esplicitamente l’umore della serata.

Scorrono a margine di tali punti esclamativi numeri d’altissima scuola che nell’inedita formazione dal vivo incidono come una gloria del calcio a una partita di beneficienza: la classe resta, i numeri d’alta scuola non mancano ma manca il contesto – la band – delle grandi occasioni (Circles Round The Sun, Take Care Of My Baby, Feeling Good Is Good Enough, Rock & Roll Is Cold…); ma non capita tutti i giorni di godere dell’eco di certe grandi canzoni che questo concerto più che riprodurre ha richiamato nello spirito e l’atmosfera, un’ora e dieci abbastanza fuori dalle logiche dello show business da ridicolizzare il fenomeno del bis per voce di Matthew E. White stesso. E non concederlo, non richiesto, a un pubblico a cui ha chiesto attenzione e pazienza, ma che ha saputo ripagare con quel grande spirito, quella grande anima che spira dalla sua musica e la sua persona.

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