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KARMA TO BURN + Avant Gardener – Porto Fluviale di Mezzani (PR), 13 agosto 2015

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Sul Po e le sue rive sono stati spesi interi affluenti di parole. D’altra parte è così con i fiumi, in modo particolare con quelli molto grandi come questo, talmente estesi da riuscire a toccare e tingere di mistero ed esoterismo tutti i luoghi e le insenature che le loro acque lambiscono. Il porto fluviale di Mezzani, un piccolo paese della bassa parmigiana, non fa certo eccezione. Percorrendo di notte quelle strade strette e tortuose dall’asfalto sconnesso, su e giù, salendo sulla sponda dell’argine per poi tuffarsi di nuovo nella golena sommersa dal granturco alto e ingiallito e dai pioppeti con le loro file ordinate, spazio e tempo si dilatano e si contraggono come in una fisarmonica relativista. Alessio ha sbagliato strada, ma non è colpa sua. Non del tutto, almeno. Ci sono io, che parlo continuamente e lo distraggo. C’è il navigatore, che stasera è più rincoglionito del solito. Siamo quasi arrivati, questo è certo. Tutto lì intorno lascia presagire che il posto debba ormai essere vicino, pronto a sbucare quando meno ce l’aspettiamo dietro un ammasso di grano. Prendiamo una stradina sulla sinistra e ci ritroviamo davanti a un piccola e sgangherata casa di legno in pieno stile Mississippi, patio e tutto quanto. Davanti, una distesa di granoturco tagliato e lasciato a macerare al suolo; dietro, una decina di file di pioppi perfettamente ordinate si addentrano in un bosco del quale nemmeno i fari della macchina riescono a illuminare la fine. Ovviamente non è quello il posto che stiamo cercando e, anzi, ci aspettiamo che da un momento all’altro un contadino zoppo e scorbutico (nel senso di “malato di scorbuto”) ci saluti con un colpo di carabina oppure che una gomma si fori a causa dei chiodi con i quali lo stesso vecchio ha disseminato la strada per tentare di catturarci e sottoporci alle peggiori sevizie che tutti i classici dell’horror che ci siamo sorbiti da adolescenti ci hanno addestrato a immaginare. Gomme bucate e cellulari fuori uso sono una formula sicura.
Le (mie) nocche producono un rumore sordo sul legno umido e rovinato e dopo una serie di lugubri scricchiolii e imprecazioni in sordina, la vecchia porta si apre cigolando, distruggendo l’opera ingegneristica di un enorme ragno che ora si dilegua rapido anche se con movenze da stop motion.
Mi faccio avanti, con tono innocente.
“Buona sera signore, ci scusi per il disturbo ma abbiamo forato una gomma e i nostri cellulari sono fuori uso. Ci farebbe mica fare una telefonata?”
Il vecchio ci squadra in silenzio per quelli che saranno stati due minuti? Forse tre. In ogni caso, minuti molto lunghi. La pelle del volto, cadente e sfibrata, si adagia sul teschio come un canovaccio liso dal troppo uso. Gli occhi velati da una cataratta lattiginosa. Una lurida salopette dal colore indefinito pende dalle spalle ossute sulla pelle bianchiccia del suo torso nudo per andare ad infilarsi in un paio di stivali gomma insolitamente puliti.
“Entrate, il telefono è in fondo a sinistra. Tenetela corta, mi raccomando.” Nello spostarsi per farci entrare si esibisce in un sorriso sgangherato, incorniciato da ciocche di capelli ingialliti che spuntano dal suo cranio lucido, offrendoci alla vista una dentatura a dir poco approssimativa, decorata da una copiosa emorragia gengivale che Alessio, da bravo dentista, trova molto interessante. Avrei giurato di aver intravisto addirittura un ascesso purulento.
“Certo, certo! Lei è davvero molto gentile.”
Soltanto quando prendo in mano la cornetta del telefono e mi accorgo che è rivestita di pelle umana ci rendiamo conto di essere fottuti, mentre un sibilo alle nostre spalle annuncia l’inizio di un incubo a base di sangue, frattaglie e umori viscerali vari.
Per fortuna, nessun proiettile è fioccato sopra di noi e nemmeno sotto, a destra o a sinistra. Le gomme erano in perfetto stato e dopo una manovra resa complicata dalle dimensioni ridotte della strada siamo riusciti a rimetterci in carreggiata e, dopo alcuni minuti, abbiamo trovato il porto e parcheggiato nel pioppeto adiacente.
Sul palco, gli Avant-Gardener stanno ultimando gli ultimi preparativi prima dell’inizio del concerto. Il biglietto di entrata prevede una consumazione in omaggio: un birra piccola, molto piccola. Troppo piccola. Il tempo di finirla e prenderne un’altra al bar (media, per l’amor d’Iddio) e il concerto inizia. Gli Avant Gardener attaccano con un montante alla bocca dello stomaco, spiattellando in faccia al pubblico un paio di inediti prima passare alla baldanzosa (sì, proprio così) “Livin’ la vida Roja (como un Power Rangers)”, dal loro album del 2014 “Free Land of Zirconia”. Una scaletta densa, al fulmicotone, nove pezzi digrignanti, di vene gonfie sulla fronte e di tendini del collo sul punto di cedere alla pressione. Eccezion fatta per “Sgt. Peacock and the Crow” e “Shit On You Crazy Zirconian” – anche queste dal precedente disco – si tratta per la maggior parte di inediti che andranno a comporre il nuovo album della band “Bye Bye the King’s Dying, Bang Bang the King’s Dead”, le cui registrazioni sono terminate verso la fine di Luglio e hanno visto l’ingresso di due nuovi elementi al basso e alla batteria. Per circa 45 minuti questi giardinieri d’avanguardia zappano, vangano e arano, fertilizzando l’argine con sudore ed espettorati fuligginosi, apparecchiando a festa il campo di battaglia per l’esibizione dei Karma To Burn.
Il cambio palco richiede tempo. Mentre una sensuale Peggy Lee canta la sua febbre d’amore, sull’argine soffia una lieve brezza, sorprendentemente fresca e asciutta, che ci avvolge e ci ripara dai morsi di quei vampiri preistorici che costituiscono la popolazione più numerosa della zona: le zanzare. Davanti al palco, alle nostre spalle, il fiume è una linea più nera della notte, interrotta qua e là dal lume di qualche piccolo molo solitario sulla riva opposta.
Una pioggia di feedback annuncia l’imminente inizio del concerto. I K2B si presentano sul palco con un nuovo picchiatore dietro le pelli – Evan Devine, entrato a far parte del gruppo durante il tour europeo del 2012 – e l’inizio di “Eight” non delude le aspettative. Seguono “Forty-seven”, “Nineteen”, Thirty-six”, “Fifty-five” etc. come fossero sparate da una fionda impazzita. Un muro di suono, eretto a trincea, dalle cui retrovie l’artiglieria bombarda senza soluzione di continuità. Il pubblico è riunito davanti al palco, compatto, le teste che si muovono in perfetta sincronia avanti e indietro nell’atto di battere contro quella barriera di suono inesorabile, forse per cercare di abbatterla. Viene da chiedersi cosa cercano tutte queste persone in una musica così tagliente, nelle reiterazioni strutturali di queste litanie ebefreniche, in un tale trionfo di onde Gamma. Stordimento? Annichilimento? Adrenalina? Elettricità? Non è una critica velata ma sincera curiosità. Non c’è spazio per il verbo e la scelta di non comunicare affatto con il pubblico è radicale e definitiva. Non una sola parola, salvo un laconico ringraziamento dopo l’ultima canzone in scaletta – “Twenty” – ripetuto dopo il bis che consiste in una “Thirty-four” da manuale.
Deposte le armi, la febbre di Peggy Lee sale di nuovo e il pubblico si dissolve, ricostituendosi in singoli individui per lo più diretti verso il bar in attesa che il DJ set abbia inizio. Il vento soffia constante e alle nostre spalle il grande fiume continua a scorrere impassibile, fendendo la notte con la sua lama di tenebra mentre bisbiglia segreti millenari nella lingua del silenzio.

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