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Foals – What Went Down

2015 - Transgressive
pop-rock / alternative

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Tracklist

1. What Went Down
2. Mountain at My Gates
3. Birch Tree
4. Give It All
5. Albatross
6. Snake Oil
7. Night Swimmers
8. London Thunder
9. Lonely Hunter
10. A Knife in the Ocean

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C’è stato un periodo di tempo, collocabile più o meno tra “Trouble” e “The scientist”, in cui ascoltare i Coldplay poteva rappresentare qualcosa di sovversivo. Iniziava un nuovo millennio e forse un po’ di tenerezza era necessaria a curare i feriti con le camice a quadri che uscivano ammaccati dal decennio del grunge. Nessuno poteva sapere che, di lì a poco, sarebbe nato il “giro di piano alla Coldplay” o che quel Chris Martin tutto sneakers e timidezza avrebbe duettato con Rihanna.

Anch’essi di Oxford, Inghilterra, i Foals ricordano quel preciso momento storico, quello dei Coldplay con qualche guizzo di genio. “What went down” guarda ai Muse, agli U2 di “Zooropa”, a tratti perfino ai sempre allegri Mumford & Sons. È tutto comprensibile, se si pensa che la casa discografica della band è una major (e che major) come la Warner.
I Foals, però, non sono degli sprovveduti: attingono sì ai Muse e ai Coldplay, ma solo quel che di buono c’è (sì, non prendiamoci in giro, qualcosa di buono c’è stato). Ne assorbono la freschezza degli esordi, non certo la stanca e pigra monotonia degli anni recenti. Per tutto questo, “What went down” risulta un album che non si può definire davvero potente, ma che per lo meno si dimostra energico, vitale, non banale. Soprattutto, un album sopra la media rispetto alle tante indie bands cadute nel dimenticatoio dopo un solo, fortunato primo disco (qualcuno se li ricorda, i promettentissimi Little Man Tate da Sheffield?).

La noia, che era stata protagonista indesiderata nel precedente, pessimo lavoro “Holy Fire”, compare qui solo sporadicamente (“Birch Tree” sembra un pezzo da colonna sonora da viaggio in Salento). Le cose migliorano, però, quando si ritorna ad un’irruenza che si pensava seppellita (“What went down”) ma pure quando i quattro sfornano il singolo pop con la P maiuscola (“Lonely Hunter”) che potrebbe suonare a rotazione anche su MTV, se non mandasse in onda solo ginnaste. C’è l’irriverenza e la sfrontatezza degli Hives (“Snake Oil”), ma c’è anche l’ammiccante (fin troppo) “Give it all”, con un giro di batteria identico alla “Undisclosed Desire” della band di Matt Bellamy. È probabilmente il lavoro finora più aggressivo della band, certo, ma si tratta di un’aggressività ammaestrata, che rimane ben controllata e circoscritta. Non si deve dimenticare che non stiamo parlando dei Cloud Nothing, ma pur sempre di una band che in quindici minuti ha ottenuto il sold out alla Royal Albert Hall di Londra.

La domanda da porsi, allora, è: che cosa hanno voluto dimostrare, i Foals, con “What went down”? Che cosa rimaneva da dire a Philippakis e soci, che già sembravano essere del tutto a loro agio nei panni di “perfetta band da stadio”? Non molto. “What went down” è qui semplicemente a sottolineare che tutto è sotto il loro saldo controllo, che la band sa ancora sfornare buoni singoli senza troppi sforzi. E ribadisce, soprattutto, che i quattro ci sono ancora, oggi, a contendersi la corona della musica “mainstream-ma-non-troppo”.

Il problema è che io, dei Foals, avevo deciso a priori di parlare male, che tutto quell’hype dietro a “Spanish Sahara” non l’avevo mai capito. E invece niente bocciatura. Facciamo un debito formativo?

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