I Locrian non appartengono a questo mondo. E forse non appartengono a nessun altro pianeta (no, neanche Kepler 452b). Probabilmente sono nomadi del cosmo, suonano all’angolo delle galassie e immergono le mani nelle nebulose dando forma a dischi come questo “Infinite Dissolution”.
Se “Lost In Space” non fosse un film del cazzo questa sarebbe la colonna sonora perfetta. Se il black metal non fosse diventato una macchietta ad uso e consumo, per metà, degli stronzetti che si imbrodano leggendo Noisey e, per l’altra metà, dagli stronzi puritani che in questo Genere vedono solo un “genere” e un’etichetta legata ad un passato iper-remoto questo sarebbe il disco black dell’anno.
Questo perché “Infinite Dissolution” è un contenitore di pura emozione tesa verso il vuoto, dall’anima algida e nera, un involucro di puro orrore dello spazio aperto in assenza di morte. E così si schiude sul vero significato del nero metallo infettato da ossessioni ritmiche a battuta continua (la sfuriata in punta di piedi di “Arc Of Extintion”), si avviluppa in lunghe e vertiginose spire space senza fine (l’immenso pulviscolo cosmico di “The Great Dying” che pare nascere da una costola di Lisa Gerrard, complice la presenza della voce di Erica Burgner-Hannum, o lo slancio synthetico e disperato di “The Future Of Death”), fino ad arrivare a ibridi di musica concreta/contemporanea e pura elettronica seminale (i tre movimenti di “KXL” sono figli, forse anche illegittimi, delle molteplici lezioni di Philip Glass, l’introduzione electro-kraut-seventies a memoria Neu!/Faust di “Heavy Water”).
La morale è la seguente: la musica estrema può essere morbida e può rendere moribondi.