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CLUB TO CLUB – Torino, 6-7 novembre 2015

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È il mio primo Club to Club. Il quindicesimo, e sono insieme ad altre 6999 persone sorridenti e appassionate. 7000 persone venute al Lingotto, Torino, negli sterminati ex padiglioni Fiat rimessi a nuovo per un festival cui non si fa piena giustizia a dire, sbrigativamente, elettronico e punto: semmai, una proposta di show tra avanguardia e pop entro la cornice dell’arte elettronica, che unisce la componente visiva a quella musicale. Sulla scia dei grandi programmi degli ultimi anni, anche l’edizione 2015 non è stata da meno, guadagnandosi il sold out anticipato grazie soprattutto all’esclusiva italiana di Thom Yorke, una scelta che a molti è parsa dettata da ragioni di marketing prima che prettamente musicali. Ma con le eccezioni soggettive che ognuno può opporre alla scelta di un nome anziché un altro, è impresa impossibile negare che il Club to Club sia oggi tra i migliori festival italiani e internazionali, proponendo (e riproponendo) i più eminenti artisti della scena elettronica contemporanea e perseguendo la ricerca e il lancio dei migliori emergenti in una location assai consona e con un’eccellente organizzazione.

VENERDÌ 6

Il mio Club to Club inizia con il concerto dei Battles, una delle migliori live band del pianeta, all’ultima tappa del loro tour e freschi del nuovo disco, da cui estraggono il brano d’apertura Dot.com per un tripudio di geometrie math-rock, dinamiche progressive e contaminazioni elettroniche. Proseguono con Ice Cream, e il minimo comune denominatore del loro show è l’energia pazzesca con cui esaltano ogni pezzo nella sua dimensione live, grazie soprattutto a John Stainer come sempre al centro del palco e cuore pulsante dei Battles. Neanche un pedalino fuori uso è servito a rompere il clima di idillio creatosi tra pubblico e la band, che come al solito miscela con precisione selvaggia chitarra, basso, keyboards, loop station e ogni altro tipo di effettistica – “Dopo il concerto ci vediamo tutti nella mia camera d’albergo, è la numero 665. Proprio quella di fronte alla 666” dice Ian Willams prima di erompere in The Yabba. Serve dire altro? Naturalmente l’anthem postmoderno Atlas, che ha fatto muovere i primi salti della serata tra il pubblico ed è l’apice della loro estetica con quel climax ripetitivo e deflagrante. E s’inizia con la certezza che quello dei Battles sarà alla fine uno dei migliori live del Club to Club 2015.

È il turno di Four Tet, datosi nell’ultimo LP Morning/Evening, due suite riproposte integralmente in ordine opposto al titolo del disco, 20 minuti ciascuna di declivio assoluto dentro la bellezza del mattino e della sera, tra raga indiani, Orb e musica New Age, qui rimescolati in favore della cassa dritta e di una dinamica più frammentaria della versione studio ma non meno onirica. Quello di Four Tet è davvero musica del futuro, la lezione della world music calibrata entro l’arte elettronica senza facili esotismi ma conservando, dell’Oriente, la sensazione di ricerca di una profonda sensazione di pace che qui collima con la bella atmosfera che si respira al Padiglione 1. Le due suite fanno da cornice ad altri tre brani, tra cui la splendida Plastic People, in un live che scontenta forse chi si aspettava di muovere la prima ora di danza sfrenata, ma per quella c’erano in contemporanea gli italianissimi Ninos Du Brasil nella piccola e caldissima Sala Gialla, di cui faccio in tempo a sentire l’ultimo tribale quarto d’ora o meglio scatenarsi al (poli)ritmo viscerale delle loro intuizioni tra batucada, campionamenti allucinati e sprazzi techno che assomigliano ad assalti frontali agli ultimi residui di inibizione attraverso la loro rapsodica Tuppelo. E bestemmiano in tanti e sudatissimi per la sovrapposizione sciagurata.

Thom Yorke. Sono tra quei pochi che lo ascoltano con curiosità ma senza particolare eccitazione. Orde di ragazze ben vestite fanno il loro ingresso nei minuti precedenti il suo set, sono venute qui per omaggiare il leader dei Radiohead più che il musicista elettronico e ciò si denota dal clima da celebrazione dell’icona rock anziché da stage elettronico. Imponenti visuals impreziosiscono la sua esibizione, che inizia sparando una base beat in eccesso su The Clock anche a scapito della udibilità della sua stessa voce, qui resa strumento musicale puro. Qui si gioca la partita del live di Thom Yorke, tra chi venera la sua voce e chi ne mette in dubbio la capacità di spingersi oltre il semplice cantato. La sua volontà di velarla tra la matassa di suoni e battiti di cassa nella dimensione live è però una implicita dichiarazione di umiltà al netto dell’autocompiacimento che attraversa il suo set e i suoi ultimi lavori. Ascolto i primi tre quarti d’ora, poi c’è il richiamo dell’irresistibile Todd Terje a lui sovrapposto, e faccio in tempo a sentire una Black Swan da urlo – poche storie – dopo cui c’è chi parla di crescita esponenziale e chi di noia incomitante.

Con Todd Terje non ci sono state discussioni di questo tipo. Per chi c’era la “disco-space-samba” ricca di ironia di Terje è il miglior set della serata. Rimescola le carte, racchiude un set che impazza sull’irresistibile Inspector Noise entro Oh Joy a mo’ di suite. In ogni attimo la sensazione è di una moltiplicazioni di suoni e accenti sull’incessante battito della casse entro la piccola Sala Gialla in letterale tripudio da stadio, concedendo progressioni oniriche da visibilio e l’attimo dopo un cambio di passo esplosivo, qualcosa in cui né mente né corpo possono fermarsi e sono costrette ad avvilupparsi al flusso denso dello Strandbar stroboscopico del norvegese. Un faro di pura gioia sonora, che rende difficile spiegare a chi si esalta di lì a poco e giustamente per un pur eccellente Jamie xx che il meglio, per chi era da Todd, è già passato.

Jamie xx fa un figurone col suo dj set, esalta il pubblico ed è molto, talora troppo trasversale tanto da apparire quasi piacione, passando house, funky, afro, techno, avant-pop,, disco ’70s con una enorme palla strobo alle sue spalle. Come quando fa riecheggiare senza distorcere e per diversi minuti Everything In Its Right Place dei Radiohead sullo stesso pubblico che acclamava Thom Yorke solo mezz’ora prima. Ma chissenefrega quando poi dalle casse vibra la tensione fagocitante di Gosh, che si risolve poi in una coda di pura estasi elettronica da stare a occhi chiusi e ringraziare di essere lì, proprio in quel momento. Oppure Loud Places, Sleep Sound e l’esotica nenia di Obvs, resa onnipresente dagli organizzatori del festival per l’essere stata scelta come jingle del festival. E poi, tra i campionamenti c’era anche Idris Muhammad con Could Heaven Ever Be Like This, e quindi va bene così.

Lorenzo Senni chiude la prima serata alle 5 di mattina passate con la sua Pointillistic Trance,, un approccio ascetico e innovativo alla hard trance ’90s, tra pattern minimale e suoni ultrasintetici, una sfida affascinante al pubblico di Thom Yorke e Jamie xx che però complice la stanchezza rincasa in massa, con un sorriso grande così per una notte che ha entusiasmato davvero tutti.

SABATO 7

Un giorno per riprendersi, in giro per una Torino invasa da possessori di biglietto per il Club To Club, e la sera di sabato 7 si ritorna al Lingotto per il gran finale, con le gambe stanche che mano a mano che salgono i beat si sciolgono in essi.

La mia serata inizia con Oneohtrix Point Never, uno dei live che già nelle attese si faceva impenetrabile e imprevedibile. E mantiene le attese, risultando spiazzante ai più, tra neo-futurismo, trovate dada, ambient-drone, musica concreta e elettronica ipnagogica. Un set non immediato, che richiede grande attenzione e a tratti fatica a decollare o risulta disturbante fin oltre le intenzioni. Avrebbero meritato sicuramente qualcosa di più dei piccoli pannelli led laterali le visuals, per valorizzare uno degli sperimentatori maggiori presenti alla kermesse piemontese.

Andy Stott è tutt’altra storia, tra le migliori della due giorni. Ormai un nome tutelare della migliore sperimentazione elettronica, con le sue sferzate avvolgenti a tinte dark-dub ridisegna il concetto stesso di musica techno, come qualcosa che va ben al di là dell’intrattenimento, ma diviene qui addirittura un happening metafisico capace di far ballare lo spirito. Techno eterea, senza un singolo momento debole e apice mistico di un festival più dedito alle pulsioni prominenti del corpo che a quelle della mente. Stott sembra aver trovato la formula magica nel giro di tre dischi e invitare gli astanti a un cerimoniale pagano di bpm, che su Faith In Strangers trova la sua litania siderale.

Il dj set di Nicolas Jaar è il momento clou dell’ultima sera, e scalda tutti i presenti. Il genietto cileno entra sepolto dai fumi lanciati dal palco, dosa per tutto il set le scariche adrenaliniche a cassa dritta alternandole a momenti di ambient dilatata che fanno spazientire il pubblico più propenso alla danza che all’ascolto, seppure queste “pause” siano a ben vedere remix lisergici come quello di Cherokee di Cat Power,. La sua musica emerge come la sua figura nell’iniziale oscurità del set: un inizio graduale, che allunga l’attesa per l’esplosione delle sue bordate techno, che attinge nel patrimonio funky e propone le recenti uscite in EP di Nymphos con No One Is Looking At You. Un set trasversale e completo di spunti dissonanti tra loro e che uno come Jaar sa però mescolare sapientemente e rendere un tutt’uno memorabile per tutti i presenti, che ne escono sfiancati e pronti all’ultima eminente fatica.

È infatti il turno di Jeff Mills, leggenda vera di quell’arte elettronica che il Club to Club fa sua, che che spara due ore di techno ininterrotta e detroitiana, che spaccano le orecchie a tutti e sembrano sempre toccare l’apice sonoro in un climax fatto set che invece si protrae inarrestabile fino alla fine, rilanciando di brano in brano una nuova scarica di suoni perfetti e devastanti davanti a cui è impossibile smettere di dimenarsi e andarsene come le gambe e l’ora suggerirebbero.

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Stordito dalla potenza del set di Mills, mi avvio verso i cancelli dell’uscita dove si accalcano persone nell’atto di commentare parimenti frastornate il muro di suoni eretto da Andy Stott in poi. C’è chi ha trovato magico Jamie xx, chi è ancora deluso da Thom Yorke, chi parla del set di Todd Terje come se si trattasse ormai di un rito pagano fra eletti, chi ancora si chiede dove volesse parare Oneohtrix Point Never, chi dice che è la decima volta che ascolta Jeff Mills e non se ne ha mai abbastanza. E così via. Il mio podio è Battles, Andy Stott e Todd Terje in un ordine intercambiabile a seconda del ricordo del momento. Due serate diverse ed egualmente memorabili, che chiudono la quindicesima edizione del festival elettronico più importante d’Italia e lo elevano a qualcosa di ben oltre il mero clubbing, cui il nome della manifestazione può erroneamente rimandare. Chi c’era sa che è stato molto di più, con i vestiti della sera prima madidi di sudore e i muscoli delle gambe intrisi di acido lattico.

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