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David Bowie – Blackstar

2015 - ISO / RCA (UK) / Columbia (U.S.)
art rock

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Tracklist

1. Blackstar 
2.'Tis a Pity She Was a Whore
3.Lazarus
4.Sue (Or in a Season of Crime)
5.Girl Loves Me 
6.Dollar Days 
7.I Can't Give Everything Away


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Ti sdraiavi per terra e puntavi lo sguardo all’insù. Le nuvole correvano al di là delle chiome degli alberi ; papà aveva fissato delle stelline fluorescenti sul soffitto della cameretta. Oltre, solo un qualche cosa di grande e maestoso che ancora oggi continuiamo a chiamare infinito; lì dove la nostra inconsistenza si fa reale. Dal salotto proveniva un’unica voce…

All’età di quasi trent’anni, mi sono sdraiato sul tappeto di casa, ho messo la puntina sul disco e nel giorno del suo sessantanovesimo compleanno (8 gennaio) ho ascoltato l’ultima sua meraviglia. David Bowie ha partorito Blackstar; vera e propria opera musicale, in sette atti, per un totale di 40.49 minuti di pura passione sonora. E basta con l’essere faziosi, critici o scettici. Quando qualche cosa tocca la perfezione, bisogna dirlo, accettarlo e goderne. Non paragoniamo ciò che non può essere paragonato. Se Bowie è quello che è oggigiorno, lo dobbiamo unicamente alla nostra perdita di creatività. Tutto questo ci porta, prima di tutto, nel condurre una forte ma silenziosa autocritica societaria e culturale. Viviamo in un mondo tecnologico e di avanguardie che non riusciamo, se non pochi, a sfruttare e controllare, creando in primis una forte discrasia tra cultura ed identità.

È proprio scoprendo un album come Blackstar, che invece troviamo l’innovazione e la voglia di creare proprio nel « Vecchio ». Sì, il “baronetto mancato” ( è uno degli artisti British che ha sempre rifiutato qualsiasi onorificenza, un vero e proprio paradosso per un idolatrato duca, titolo affibbiatogli dalle volontà popolare) ha quella capacità interpretativa e visiva che lo ha reso effettivamente geniale. Ancora una volta, portando con se la propria arte, è riuscito a trasformarsi e ad anticipare, o meglio salvare, una identità, in questo caso occidentale, ormai depredata da qualsiasi forma di valore e qualità. Pertanto se Bowie viene definito come un fottuto genio (ci scusiamo per la terminologia usata), lasciamolo tale; limitiamoci ad ascoltarlo e ad assaporarne i piaceri. Ascoltare Bowie necessita fondamentalmente di una sorta di atarassia lucreziana: un disincantarsi e un distaccarsi temporaneo da tutto quello che ci circonda e permea la quotidianità, abbandonando il soggettivo e l’oggettivo interpretativo, per rifugiarsi nel solo presente.

Blackstar è un’opera complessa nella sua semplicità. Basi ritmiche fondate sulle dinamiche del jazz che incontrano la new wave , la musica pop, il krautrock e reminiscenze fusion. Il testo diventa primordiale e fondante, rendendo questo disco l’ennesima opera d’arte del Duca Bianco. Ma iniziamo con ordine. Parleremo principalmente di impressioni e demoni, niente più. Non analizzeremo i singoli brani in modo pragmatico e freddo, ma preferiamo lasciare a voi il gusto della scoperta ed il piacere interpretativo. Il bello sta proprio nell’assaporare lentamente… ma con gusto.

Sue (Or in a Season of Crime) è un singolo uscito l’anno scorso e registrato con la big band Maria Schneider. Questa volta, viene camuffato e reinterpretato in una versione più rude e violenta, tecnicamente più oscura. Prendendo a prestito le parole di David Byrne, “fraseggi vocali, graffianti accordi percussivi e stridori sassofonistici”, questi gli ingredienti della spontaneità di David Bowie. Il riff principale, a mano a mano, si fa sordo, amplificato da chitarra e basso che si immergono in profondità subconsce. Cosi come il suo creatore, il brano si trasforma e viene a rasentare l’ipnosi trance ed elettronica. Un delirio per i nostri condotti uditivi.

Due sono le peculiarità di Blackstar. Prima di tutto l’uso imperterrito di un grandioso sassofono, unico filo conduttore di passione e vitalità. Diviene uno strumento costante che traccia dopo traccia barrisce e ruggisce, con leggeri echi springsteeniani e alla Billy Joel. E poi, la voce del Duca che possiede ancora il sapore di unicità. Docile ma al contempo certo, il David Bowie del XXI secolo definisce un timbro vocale che spazia fino ai grandi vocalists della musica soul. Il brano Lazarus come esempio.

Il tono complessivo di Blackstar non potrà mai essere definito come feroce o triste, bensì personale ed interno. E proprio nel marasma discografico odierno e nella mediocrità commerciale contemporanea, una tale produzione risulta essere un faro ben saldo alla scogliera. David Bowie rimane l’ottava nota di un processo musicale in continuo divenire, non soltanto dal punto di vista sonoro, ma anche e soprattutto per il suo carattere interpretativo e lirico. I Can’t Give Everything Away  è la vera perla « nera » dell’album. Un testo fondamentalmente autobiografico. Parole soavi che affogano in una corposità e complessità melodica sempre ben definita. Una traccia che in un certo senso viene a giustificare l’assenza dell’idolo britannico dalla scena pubblica degli ultimi decenni.

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