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Boris / Merzbow – Gensho

2016 - Daymare Recordings
drone / noise / doom

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Tracklist

Gensho Part 1 (Boris):
01 Farewell
02 Huge
03 Resonance
04 Rainbow
05 Sometimes
06 Heavy Rain
07 Akuma No Uta
08 Akirame Flower
09 Vomitself

Gensho Part 2 (Merzbow):
01 Planet of the Cows
02 Goloka Pt.1
03 Goloka Pt.2
04 Prelude to a Broken Arm

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Il troppo stroppia, recita il famoso detto. Nel caso di certe band invece il troppo è sempre meno di quel che vorresti. “Gensho” è il terzo lavoro in collaborazione tra Merzbow e Boris e forse il migliore. Nulla di nuovo sotto il sole, ovviamente, ma quando si parla dei giapponesi sono le sfumature a dare risalto al tutto. La genesi dell’album risiede in una Boiler Room condivisa tra le due realtà, un set ciascuno poi tutti insieme appassionatamente, da qui l’idea di fare due vinili da suonare contemporaneamente. Sarebbe tutto molto bello ma, siccome non tutti a casa abbiamo un doppio turntable, a questo ensemble di svalvolati è toccato far sì che i dischi funzionassero anche indipendentemente. Io sono uno di quegli stronzi che non detengono due giradischi, dunque ascolto uno alla volta.

Parte 1: Boris. Senza batteria, ma Atsuo c’è eccome, canta e si occupa dell’elettronica, ed è questa la sfumatura che risalta: drumless sì, ma comunque con una botta non indifferente. Siamo allo step più shoegaze del trio, più di “Präparat”, per intenderci. I brani proposti sono pezzi già conosciuti e sono tratti da svariati dischi dei tre di Tokyo (“Pink”, “Amplifier Worship”, “Akuma No Uta”, “Noise”, “Rainbow” e “Golden Dance Classics”) ma acquisiscono qui una nuova veste, più grigia e mortifera ma intrinsecamente romantica. I farscapes leggiadri e melodici di “Farewell” sono un opaco gioiello shoegaze, il disastro noise furioso prende “Heavy Rain” trasformandola in un Frankenstein meccanico dalle venature psych-pop, “Huge” invece è un mostro doom da dieci tonnellate che lascia spazio all’ambience industrial di “Resonance”, manco fossero dei Test Dept. colti da pruriti spirituali. Spiazza (ma neanche tanto, se ci pensate) la presenza di “Sometimes”, allucinante cover dei My Bloody Valentine, litania asfissiante intarsiata da debilitazioni electro-noise che piacerebbero a Sam Prekop. “Akirame Flower” spiazza con il suo essere power-pop mutante e rivestito di ghisa elettrica mentre “Vomitself” è esattamente ciò che ti aspetti, una fucilata al ralenti, droppata (e drogata) all’estremo in quasi 10 minuti di follia figlia degli Eyehategod più crudi e marcescenti.

Parte 2: Merzbow. Da Masami Akita non ci si può aspettare null’altro che un disastro totale, fatto di alterazioni della forma d’onda e castrazioni sintetiche: “Planet Of The Cows” ha questo synth ultradistorto che viaggia in mezzo alle manipolazioni che ti riporta alla mente subito Kaoru Abe (o John Zorn, fate vobis), e fa male, scava nelle sinapsi degradando l’animo per diciannove minuti buoni. Le due “Goloka” fanno il “verso” ai trapani di Einstürzende Neubatuen e Throbbing Gristle che nascondono una sensazione a 8-bit. Arriva in chiusura l’ultraviolenza atonale e distruttiva di “Prelude To A Broken Arm”, forse l’unica a non funzionare benissimo da sola anche se siete amanti del noise più bastardo ed infame.

Volete un disco pesante? Qui ne avete addirittura due. Non potreste chiedere di meglio.

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