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Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra – Albore

2016 - Agogo Records
jazz / experimental

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Tracklist

1. Albore
2. Atlante
3. Basrah
4. Nostril
5. Maatkara
6. Betel
7. Rhabdomancy
8. Reveal
9. Whorf
10. Wheat Field

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É raro che in una recensione io arrivi diretto al punto, Ma per “Albore” di Manuel Volpe & Rhabdomantic Orchestra farò un’eccezione, perché in Italia dischi così sono rari. Perché è bello (il disco)? Anche, ma non solo, direbbe un altro illustre. Il motivo è più sottile, ma forse neanche tanto. Ci arrivo. Andare a toccare le corde jazz nel loro segmento più etnico e legato alle radici è un compito assai complicato. Farlo bene al punto da comporre (e suonare, che cazzo) dieci brani come quelli confezionati nel secondo disco di Manuel è roba rara.

La cifra artistica è altissima, la Rhabdomantic Orchestra si muove leggiadra tra le composizioni e a strati crea qualcosa di intenso, a dir poco, si incastrano a creare castelli sonori quasi trasparenti, ad intrecciarsi di continuo. L’album segue una rotta precisa, perché Manuel sa bene in che porto approdare e dunque il vento è a suo favore, e la sua nave è robusta, il capitano sa il fatto suo e parte piano, la fa rollare fuori dal porto al nascere del sole con “Albore”, lento approccio waitsiano (quasi trait d’union col suo primo disco che, a mio avviso, pagava più di un debito a nonno Tom) percussivo, carezzato dai temi caldi dei fiati che con calma si sovrappongono, circumnaviga i ritmi sostenuti di “Basrah” con tocchi a sei corde sotto l’egida di San Ribot mentre “Atlante” saluta da lontano Mulatu Astatke con gli ottoni come cannonate ad esplodere al momento giusto. Uno degli altri motivi per cui è un disco raro per l’Italia è l’uso moderato, corretto e dosato della voce, che non sfocia nel bieco cantautorato privo d’educazione di questi tristi anni ma che carezza e accompagna l’orchestra, quasi a dettarne il ritmo con il suo timbro caldo ed avvolgente. Ipnotico il ritmo “strappato” di “Maatkara” più anni ’70 di quanto si direbbe, con nuance vocali da 92 minuti d’applausi, mentre in un minuto scarso “Betel” ci dice quanto John Lurie e il suo rumorismo signorile abbian fatto bene al Nostro. La movimentata “Rhabdomancy” sfonda lo stereo e c’è una tenue vena calipso ad imporsi, mentre “Reveal” ha l’aspetto una sgraziata “legnata” ritmica che deve molto all’improv, mi sbaglierò, e via fino alla claudicante e notturna “Wheat Field” in chiusura.

Testa, cuore, mani, occhi e labbra, tutto questo si muove in “Albore” e lo rende un disco più unico che raro sul suolo di questo Paese. Ma questo ve l’ho già detto. Lasciatevi portar via.

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