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Tim Hecker – Love Streams

2016 - 4AD
elettronica / sperimentale

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Tracklist

1. Obsidian Counterpoin
t 2. Music of the Air
3. Bijie Dream
4. Live Leak Instrumental
5. Violet Monumental I
6. Violet Monumental II
7. Up Red Bull Creek
8. Castrati Stack
9. Voice Crack
10. Collapse Sonata
11. Black Phase

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A tre anni dall’ultimo Virgins torna sulla scena Tim Hecker, maestro elettronico indiscusso, che non richiede smodate presentazioni. Chirurgo finissimo d’insolite visuali e sezionamenti ambientali, torna con “Love streams”, uscito in Aprile e firmato 4AD. Esatto, 4AD: celeberrima etichetta che tuona dall’immenso e generalistico calderone postpunk, che evoca ancora momenti di portata storica straordinaria, d’ineguagliate produzioni e raffinatezze lungo tre decadi (Dead can dance, cocteau twins, per fare pochi immensi nomi). Ierogamie sonore e sposalizi produttivi di un certo peso dunque, quest’album non poteva che segnare un rinnovamento stilistico nel lavoro dell’artista canadese. Fin dalla sua struttura compositiva: registrato tra il 2014 e il 2015 al Greenhouse Studio di Reykjavik in Islanda, colonna portante e sfondo tematico del disco è il choir icelandic ensemble –un vero e proprio coro da camera. Alla cui sommità, o alla cui sommersa base, troviamo un visionario maestro d’orchestra, nostro Hecker. Il quale violenta e campiona, muove e dispone a suo piacimento della fortunata e nuda maestria dell’ensemble.

Talune tracce (Obsidian Counterpoint, Up reed bull creek, Music of the Air) sembrano iniziare con il solito tappeto di rarefatta irrealtà, quello a cui siamo abituati e attorno cui Hecker ha costituito la sua preziosità e riconoscibilità. La quasi non-essenza e non-esistenza stilistica tipiche dei suoi lavori, basti pensare all’avvolgenza aerea di An Imaginary Country (2009) piuttosto che al conturbante e davvero impalpabile Ravedeath 1972 (2011). Lavori che si sono imposti sulla scena degli ultimi anni, con una forza spiazzante; un ambient-drone senza scampo, inconfrontabile e indefinibile, eutanasico. Capace di suonare a un livello più profondo dell’orecchio, potremmo dire. A un livello immateriale, quasi nulla si udisse –musica della mente sfuggita ed evaporata, a cui rimangono solo tappeti sonori immaginali e sprofondati, nebbiosità e rarefazione dalla trance psichica quasi spersonalizzante, scioccante; una impercettibilità non-levigata di ogni suono, spiriti sfuggenti da ogni angolo e da ogni silenziosissima fotografia. Potenza annichilente della non-potenza, nolontà elettrosciamanica, insomma: tremendamente trasportante. “Musica da suonare al buio” direbbe da altre ed alte schiere un John Balance.

Ma, no, stavolta non è proprio così: Love Streams è piuttosto una evoluzione, se non una leggera virata, dentro uno stile di per sé eternamente uguale a se stesso. Tim Hecker stavolta riesce a incontrarci nella materia. Nella contingenza. Sulla terra. Dove atterra però, è l’unica tipologia geografica di terra e ambientazione, che poteva accogliere questa incarnazione; ospitare questo delicatissimo cambiamento di stato (fisico) : L’ Islanda –terra del ghiaccio, letteralmente. Unica materia per lui possibile e modellabile, che non costa alterabilità: il ghiaccio.
Bije Dreams e Liveleak instrumental sono disegnate in una specie di neoclassicismo lontano, algidamente scarnificato. Spogliato e minimalizzato, inserito nelle tipiche linee electro che la terra dei ghiacci artisticamente evoca, dai suoi funzionalismi sonori e quadrati, eterei e rigidamente essenziali (Bjork esempio più semplicistico e comune).
Nel dittico Violet Monumental (I-II), il coro appare nella prima parte perversamente sovrapposto, assumendo quasi una disperazione vaga, urla e cristalli vocianti da un purgatorio freddo e sprofondato nella neve, distesi nel bacino dei ghiacciai. Per poi sfumare e scomparire man mano del tutto, nella seconda parte.
Castrati strack innalza improvvisamente il riverbero e la tensione dalle dune innevate, atonale eppure incalzante, si desta come tanti coltelli che dalla pace fin qui ascoltata improvvisamente stridono. Grattano sul ghiaccio. Finché non spaccano la terra gelida che nascondeva le acque sottostanti: frana il suolo, e nuovamente si apre il coro, cadiamo giù. Non più protetti, inabissandoci nelle acque pressurizzate di un mar baltico disegnato e navigato a occhi chiusi. Il coro diviene adesso, in un crescendo ipnotico mirabile, unica lucerna nell’oscuramento salino, di bagni proibitivi e ipotermici.
Voice crack è invece un volano leggero, un fiocco di neve che pacatamente si adagia nell’aria spenta da un synth, acceso poi da un miscuglio chitarristico dissonante, come a sporcare un tantino il bianco, a scaldare e a immettere un poco d’aria; mentre il coro femminile intona una sommessa invocazione, alla veglia del freddo.
Collapse Sonata apre con dei flutti vividi, per poi diroccarsi in campane spezzate, in sonar feroci e tremendi; stessa cosa in Black Phase, traccia che chiude il disco, dove la distensione iniziale si contamina improvvisa di bassi lerci, sporcati oltremodo, campionati con irruenza, violentissimi. Sbaragliando le composizioni tipo cui eravamo abituati ascoltando Tim Hecker, disilludendoci ancora da un inizio dei soliti. Come già lungamente premesso, una virata verso lidi più terreni, palpabili, pure nella solita angustia glaciale, ma articolati e pensati rispetto al passato.

Hecker affronta il senso della sua musica, in una dimensione più tangibilmente reale, corporea. Sinfonica, come detto. Il choir icelandic implode dentro come mille spilli di ghiaccio soffocati nel costato dell’ascoltatore, la sovrapposizione fatua e impercettibile di voci corali, è missata dall’artista sapientemente, lasciando un senso d’ineffabilità, in piena influenza 4AD. Improvvisamente il coro s’interrompe, decade, come svestito dal silenzio senza una continuità strumentale, e in un minuscolo accenno di synth cristallino e gelido parte il lungo flusso viaggiante, tipico del suo Ambient-core.
Il risultato finale non è di quelli a cui eravamo abituati. Il viaggio stavolta è diverso dalla fama che lo precede: non è estraniante, non abbiamo lasciato i nostri timpani per involarci perdutamente, nei nostri corpi eterici; non siamo stati rapiti stavolta. Ma l’effetto, nello stupore di vedere Tim Hecker intorcinare i fili delle sue allucinazioni uditive, assieme alle sopraffine voci femminili di un vero ensemble, è ugualmente un’esperienza trascinante e potente. E serenamente consigliata.

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