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Graves At Sea – The Curse That Is

2016 - Relapse
sludge

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Dopo quasi 15 anni passati tra cambi di line-up, demo autoprodotti e qualche split album, i Graves At Sea rischiavano di restare la più grande promessa mancata dello sludge americano più sotterraneo. Sepolti vivi da tonnellate di lava e magma violaceo, ridondanze di distorsioni, epopee mesozoiche da tempo dei giganti.

Ciò che oggi emerge dalle acque come una creatura apocalittica è un enorme album di oltre 70 minuti edificato su brani spiraliformi, scandito dagli incastri ipnotici di riff che marciano col passo dell’esercito invasore attraverso il ghetto degli ultimi sopravvissuti, mentre le grida straziate di Nathan Misterek tratteggiano visioni di cimiteriali e solitudini d’abisso. Non c’è groove, non c’è “swing”, non c’è felicità nelle membra di una bestia che sembra perennemente ricadere su sé stessa. Dead Eyes (11 minuti), seppur addirittura parossistica, mette più di un brivido con quella coda strumentale in cui spunta un imprevedibile violino; strumento che apre poi la lugubre litania paraindustriale di The Ashes Made Her Beautiful (15 minuti), intenso poema di malattia e morte senza redenzione, che tra un labirinto di sudari recupera il fantasma di una melodia che pare struggente, se non fosse nascosta sotto caterve metalliche in caduta libera.

Nel migliore stile “crossover” della Relapse, un’esperienza metal tra le più profonde sentite nel primo quadrimestre bisestile, viziata solo da uno smodato senso di grandezza e da una prolissità sonora certo non molesta, ma debitrice di maggior equilibrio.

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