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Raw – From The First Glass To The Grave

2016 - Aural Music
metal / blues / experimental

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Tracklist

1.Death Waltz
2.Chopped Em’ Up
3.Slowly But Surely
4.I’m A Shell (But I’m Your Man)
5.Mine
6.From The First Glass To The Grave

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Di recente la scena musicale ha subito gravi lutti e gravi perdite e, tra queste, degna di molte lacrime è stata la scomparsa di un piccolo, grande gruppo proveniente dall’Oregon. Mi riferisco agli Agalloch, band che ha saputo fondere istanze provenienti da generi diversi, dimostrando che non erano poi così lontane tra loro come si sarebbe potuto immaginare. Eppure, nel grande calderone della musica contemporanea, ad ogni perdita deve per forza di cose corrispondere una conquista. I canadesi Raw, seppure artefici di un sound assai diverso, sembrano aver ereditato la lezione degli Agalloch per più di un aspetto.

Già nella presentazione di questo disco di esordio targato significativamente Aural Music, il trio di Calgary inserisce, tra le proprie influenze, generi tra loro distanti: il Delta blues, il Country, il black metal e la psichedelia. Ci si potrebbe aspettare un’accozzaglia di suoni inascoltabili, e invece il risultato è piacevolmente sorprendente. È come se John Lee Hooker avesse “sposato” John Garcia, dopo avergli offerto una misteriosa pillola a base di cattiveria. Ma dire questo non basta: fin dalla prima traccia, Death Waltz, emerge la parola chiave che racchiude l’intero disco: “introspezione”. Tra le influenze, infatti, avrebbe sicuramente dovuto figurare anche il neofolk, come suggeriscono le distese di chitarra acustica nutrite da un cantato disperante e cadenzato. A partire da Chopped Em Up l’influsso del blues prende il sopravvento grazie ad incisivi riff maculati di suoni acidi; ma si tratta di un blues oscuro, accordato al ribasso e accompagnato dal canto rauco di quello che potremmo chiamare, a ragion’veduta, il fratello segreto di Burzum. E se con Slowly But Surely i volumi delle chitarre improvvisamente schizzano per regalarci un bagno nel Mississippi, i pezzi successivi rimettono in gioco l’impalcatura minimalista: si annega in lunghi giri di chitarra ripetuti, seguendo la lezione del post-rock, o meglio, di un post metal alla Isis che ricorda, per traslate vie, anche gli arrangiamenti dei primi Neurosis o dei più cruenti Godflash. Con Mine siamo volutamente in bilico tra intonazione e dissonanza, mentre con il lungo brano finale, omonimo rispetto al disco, che l’impasto aggregativo assume la sua forma definitiva.

Una iniziale commistione di istanze neofolk, post-rock e ambient ci fa intravedere, sullo sfondo, quel bellissimo EP degli Agalloch, The White, oscurato dalla fama del precedente full-lenght, e poi, gradualmente, tutto evolve in un ordito psichedelico, nuovamente sovrastato da un cantato granitico alla Orange Goblin, per culminare in una sorta di disorientante nuvola sonora in stile desert session. Molta carne al fuoco dunque, ma la grigliata è decisamente riuscita. Il titolo stesso di questo disco, From the First Glass to the Grave, non lascia dubbi: si tratta davvero di un trip al sapore di Peyote dalle foreste canadesi alle desertiche distese del Tennessee, patria del miglior whisky o, se si vuole, davvero di un viaggio andata e ritorno “dal primo bicchiere alla tomba”.

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