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Non c'è più il jazz di una volta

KEIJI HAINO: Non c’è più il jazz di una volta (e ‘sticazzi) #8

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Butta via il grammofono

Piantala col telegrafo

Con ‘sto swing ora basta

Voglio solo roba molesta

É questo il jazz che ho in testa

“Topo Gigio sei veramente fortissimo! Potresti venire a distruggere un concerto jazz?” “Sì, certo. AAA” SDRSH.

Già ve lo dissi nell’articolo su Kaoru Abe che il Giappone è un posto dai confini labili. E così dovrebbero essere i vostri, se leggete un articolo in cui si manda prepotentemente a fare in culo il jazz standard, o meglio, il jazz standard suonato senz’anima nel 2016, con quel rivestimento di plastica tipico dei divani delle nonne, e guai a sporcare le sacre federe dei genitori dei vostri genitori, pena la crocifissione in sala mensa, o in cucina, in questo caso, che le nonne voi ve le ricordate più ai fornelli che attaccate al grammofono ad ascoltare Duke Ellington. E allora perché non vi liberate da questo atteggiamento dannoso? Che i dischi del Duca li potete ben mettere su (lo facciamo tutti, segaioli del vinile come siamo), ma non esagerate con tutto questo fake smooth jazz standard da aperitivo del cazzo suonato da quartetti improvvisati alla bell’e meglio, che la moda del jazz mentre succhiate uno spritz ai grandi eventi del gèzz italiota non fa un cazzo bene. Dunque, cosa stavo dicendo? Ah, sì, i confini labili, il Giappone, Keiji Haino. Se vi ritrovate a dire “HEY, SCRIBACCHINO DEI NOSTRI MOCASSINI (niente stivali qui) QUESTO QUA MICA FA GÉZZ” allora ho sprecato un quarto d’ora a trovare un’introduzione valida al mio discorso. Se invece siete abbastanza matti da accostare questo signore dall’aspetto bizzarro alle migliori sei corde del jazz in salsa astratta allora potete tranquillamente continuare senza quella voglia di insulto facile al pennaiolo di turno, che sono io in questo momento.

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Nato a Chiba il 3 maggio 1952, Keiji Haino cresce in quell’idea di controcultura che investirà tutto il mondo, terra del Sol Levante compresa, e non si lascerà sfuggire il surf immaginifico con cui cavalcare l’onda anomala di cotanto mischiarsi di culture. Dapprima è il teatro ad esercitare una certa dose di magnetismo verso Keiji, con Artaud in testa, ed è forse il pensiero “anti-teatrale” di Antonine che Haino prenderà ad esempio per la sua vita in musica. Sta di fatto che è mentre ascolta “When The Music’s Over” dei The Doors che scatta qualcosa nel cervello del giapponese, e, anziché finire. come annunciato dalla combriccola di Morrison, la musica inizia e lo fa nel migliore dei modi. Nascono, nei primi anni ’70, i suoi Lost Aaraaf, esperienza condivisa col batterista Shime Takahashi (che, guardacaso, ha recentemente aperto un club a Tokyo chiamato proprio The Doors), che, sul subito, non lasciano traccia ufficiale del proprio passaggio, salvo nel 1991 venire ripescati dalla P.S.F. Records e sbattuti su un dischetto omonimo che racchiude le live performance di quegli anni tumultuosi. E l’amore di Haino per la psichedelica, il free jazz e tutto ciò che è rumoroso viene rigurgitato impietosamente nelle tre tracce, ovviamente prive di titolo e dal minutaggio impossibile, presenti nell’album. Nella sua voce l’alternarsi di grida psicotiche e intensità blues è evidente, ma l’improbabile fusione deve ancora manifestarsi a dovere. Intanto la NHK, emittente televisiva ammiraglia del Sol Levante, epura il cantante dai suoi programmi per diverse decadi (dal 1973 al 2013, per la precisione), a causa del suo odio verso le istituzioni, o forse solo per la malata propensione verso l’anomalo e l’ignoto. Finita l’avventura con Takahashi Haino collabora con l’artista psichedelico Magical Power Mako per poi rinchiudersi in un breve silenzio radio durante il quale mutuerà un amore ancor più intenso per il blues nella figura del texano Blind Lemon Jefferson, oltre ai Blue Cheer e svariati altri compositori e musicisti anomali come il siriano Hossein Alizâdeh. Con queste idee per la testa forma, nel 1978, i Fushitsusha ma solo nel 1989 vedrà la luce il primo album del gruppo, intriso di improvvisazioni e psichedelia marcia fino al midollo. Nel 1981, mentre la band sta formando il proprio pensiero, Haino da la luce al suo capolavoro assoluto e lo fa da solo, prendendo in pieno, e molto sul serio, il suono e l’intensità di Blind Lemon, tramutandoli in un’ora e un quarto di follia, questo è “Watashi Dake?“, edito dall’etichetta Pinakotheca e ristampato dalla solita P.S.F. Questo il primo passo verso un’estetica oscura, con la copertina (degna dei migliori dischi dark-wave e black metal a venire) a ritrarre il cantante/chitarrista in un completo nero, occhiali da sole e lunghi capelli corvini, un artista maledetto tour court insomma, come i suoi eroi Poe e Artaud. Il disco è una bomba a mano e mischia un’anima rarefatta, triste e protesa verso un’elettricità lacrimevole ad un’irrequietezza fuori norma, che si palesa nelle grida, negli orgasmi e nelle follie vocali di un Haino sempre più irrequieto, e nella sua chitarra si palesano con prepotenza le figure di Frith e Sharrock. Al disco segue uno stop di tre anni per il Nostro, che si ammala e rimane così in silenzio forzato. Ritornato nei ranghi dei Fushitsusha attira le attenzioni di un signore chiamato John Zorn che deciderà di metter mano su “Allegorical Misunderstanding” del 1993, miglior album dell’ensemble nipponico edito finora, a mio modesto avviso, cacciandolo sul mercato per la sua etichetta Avant e facendolo passare per le mani di Martin Bisi e Howie Weinberg, che donano al disco un suono ineguagliabile, nel suo misto tanto inverosimile quanto spettacolare di post-punk scheletrico, noise, avanguardia free e jazz super elettrico a là Frisell dei bei tempi astratti. La band infila una sfilza di dischi disumani fino ad arrivare a contare nelle sue fila, nel 2014, nientemeno che Peter Brötzmann, capostipite del rumore ferale in jazz e architetto di sperticate noise senza pari, sul disco “Nothing Changes No One Can Change Anything, I Am Ever-Changing Only You Can Change Yourself” edito dalla Utech Records, e foriero di una free-form macchinosa e disastrosamente difficile da assimilare. Il rumore e l’eccesso lasciano spazio alle dilatazioni eteree del progetto Nijumu che sul disco “Era Of Sad Wings” del 1993 dimostra tutto l’amore per la musica medievale, la dilatazione dark-wave e, com’è giusto che sia con questi due ingredienti in ballo, per i Dead Can Dance. Anche il pop attira Haino e nel 1998 è il momento giusto per licenziare il disco omonimo dei suoi Aihiyo, agglomerato di canzoni popolari giapponesi e non degli anni ’50 e ’60 in pieno stile Velvet Underground ma senza droga, anche se non si direbbe. Si avvicinano gli anni zero e Haino aumenta esponenzialmente le proprie scorribande occidentali, si ritrova in studio con Greg Cohen e Joey Baron, entrambi alla corte della Masada di Zorn, giusto il tempo di un disco (“Un Unclear Trial: More Than This” del 1998) in cui il free jazz si spreca e di pubblicare “Vol.2” al fianco del chitarrista Loren Mazzacane Connors, splendido compendio chitarristico e marziano. Essendo Keiji precursore di certa follia rumorista risulta impossibile non incrociare la propria strada con i connazionali Boris, dando la luce a “Black: Implication Flooding” mastodonte noise/sludge che piega orecchie e cervello ai propri infami voleri.

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Arriva il nuovo millennio ma la voglia di sperimentare e spingersi in là dell’oscuro cantore non accenna a placarsi e allora scomoda i Ruins, altra band di pesante rilievo per la musica altra che si spinge da un pezzo al di fuori dei confini giapponesi, formando il supergruppo Knead, autori di due dischi di rock-improvvisativo volto alla distruzione totale (nella fattispecie il secondo “This Melting Happiness – I Want You To Realize That It Is A Trap” del 2003 è davvero godurioso, se vi piacciono i disastri à là Moonchild). Il 2004 vede finalmente ripetersi il miracolo della bellezza del primo “Watashi Dake?” in quello che ritengo essere (magari sbagliandomi) il suo diretto discendente: “Black Blues” è un disco assurdo uscito in due versioni distinte “Soft” e “Violent”, l’una di uno splendore spiazzante, con la migliore reinterpretazione (non me ne vogliano i fan di Cash e della Galas) di “See My Grave Is Kept Clean” di Jefferson ch’io abbia mai sentito, l’altra impregnata di un disagio noise senza pari, tra grida lancinanti e follia ferina. Dal 2008 in poi si consolida, soprattutto in sede live, il trio Haino/O’Rourke/Ambarchi che vede i tre cimentarsi in performance live e studio pregne di rumorismi assortiti, com’è proprio nelle anime (e nelle corde) di questi loschi figuri, con Oren a tessere trame ritmiche scarne e violente mentre Keiji e Jim alzano l’asticella del potere delle texture di voci e chitarre in lavori di questo tipo, stessa cosa vale per il mostro drone formato da Stephen O’Malley, Ambarchi e Haino chiamato Nazoranai, forieri di un disco che di umano ha ben poco. Tra una svisata drone e un live zeppo di oscurità arriviamo al 2016 e il Nostro unisce le forze al collega nipponico Merzbow il batterista Balász Pandi.

MERZBOW / KEIJI HAINO / BALÁSZ PANDI – AN UNTROUBLESOME DEFENCELESSNESS (RareNoise Records 2016)

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Non so cosa sia lecito aspettarsi da un simile trio, probabilmente nulla e tutto, ed è ciò che ci si ritrova ad ascoltare mettendo su questo lavoro a sei mani. Disco diviso in due anime distinte e dal ventaglio di colori che più ampio non si può. Una sorta di jazz improv marziana composta e suonata senza pietà, niente fiati né pianoforte, senza voce né luce. Le tre parti denominate “Why Is The Courtesy Of The Prey Always Confused With The Courtesy Of The Hunters…” sono un’infornata di botta e risposta tra le chitarre taglienti di Haino e le ritmiche scarne, ma non per questo meno potenti, di Pandi, con una prima parte urgente e furiosa, quasi nelle migliori intenzioni colemaniane di free form a braccetto con le sfuriate elettriche di Sonny Sharrock che sfociano nell’entrata prepotente di Akita sul secondo movimento, a far la parte del sassofono che fu di Brötzmann mentre gli altri due menano schiaffi a tutto andare sullo sfondo. Si presenta con un piglio più marcato e “quadrato” la sezione “How Differ The Instructions Of The Left From The Instructions Of The Right?“, la sensazione noise-rock viene assemblata e poi, appena un attimo dopo, scomposta in mille particelle che si disgregano e ritrovano di continuo nelle quattro parti, senza un attimo di posa o calma, in certe parti(celle) al limite del black metal più oscuro e disarticolato. Un piccolo gioiello di non-musica, per pomeriggi all’insegna del disagio e della free-form artistica, insomma.

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