Il mezzo campanile del paese fantasma di Curon Venosta, sommerso dalle acque del lago di Resia, in uno sgranato bianco e nero. La foto sulla copertina di Belfry rinforza il ritualismo occulto di uno “scarlet doom” martoriato da crepitii di rumore distorto, che fa del mid tempo e del chiaroscuro strumentale veicoli efficaci per incantesimi notturni. Sul fronte del palco, l’eterea voce femminea di Sara, con cui si gioca l’efficace carta del contrasto, così come nei buoni ed attualissimi Holy Grove della Heavy Psych. In verità meno valchiria e più triste silfide celtica, tanto da sfumare, dove la ragnatela chitarristica si fa almeno ammaliante, nella Amber Webber musa dei Black Mountain.
Per il resto troneggiano le consuete, lunghe, minime variazioni per monoriff d’origine sabbathiana, con la grazia di alcune azzeccate digressioni, vedi il sinistro solo di clarinetto nel mezzo di Blood. Efficace, ben suonato e anche se alla lunga il gioco pare mostrare la corda (57 minuti non sono mica pochi…), resta un esordio ben meritevole d’attenzione.