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Hugo Race Fatalists, Colin Stetson, Omar Rodriguez-Lopez, Head Wound City: Viaggio Al Termine Della Notte #25

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“La vita è questo, una scheggia di luce che finisce nella notte”

Questa è una delle frasi più celebri del romanzo Viaggio al termine della notte, scritto da Louis-Ferdinand Céline nel 1932.
A volte, non è solo la vita a perdersi in qualche frammento della notte, ma anche la musica. Con l’avanzamento dell’era tecnologica, la quantità di uscite musicali è aumentata notevolmente, portando tutti i vantaggi e svantaggi del caso. Uno dei principali svantaggi è proprio quello di perdere tante piccole perle musicali nella notte della rete. La rubrica è quindi una riscoperta di tutto quello che nei giorni o mesi passati, non ha trovato spazio tra le pagine di Impatto Sonoro e che vi viene proposto come il biglietto per un lungo viaggio musicale. In ogni uscita parleremo di cinque tappe che riscopriamo assieme a voi. Non vi resta che partire e ricordarvi che la cocaina non è che un passatempo per capistazione.

A cura di Fabio Marco Ferragatta.

Hugo Race Fatalists – 24 Hours To Nowhere
(Glitterhours Records, 2016)

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Riecco i Fatalists di Hugo Race con un nuovo, spettacolare disco. Riuscire a migliorarsi di volta in volta, sfornando sempre album di gran classe, non è roba da tutti. Invece la formazione composta dall’ex Bad Seed e dai tre Sacri Cuori Gramentieri, Sapignoli e Giampaoli sembra riuscire a farlo con una semplicità debilitante. Dopo lo splendido abisso sporco d’elettronica di “We Never Had Control” del 2012 si torna alle origine del linguaggio cantautorale, tra silenzi e morbide incursioni elettriche “24 Hours To Nowhere” è davvero un viaggio al termine della notte, guidato dalla voce calda, sofferta e carezzevole al tempo stesso di Race che inanella parole di disillusione, amore e amarezza rendendole velluto adagiato sullo splendido tappeto creato dai musicisti, facendo suo un universo folk impregnato di malinconia. Senza mai diventare troppo ruvidi, anche nei momenti più movimentati, o troppo melensi pur scavando a fondo nelle “roots” della musica “popolare” statunitense, i Fatalists passano, una dopo l’altra, le tappe di questo road trip in bianco e nero in un crescendo emotivo che spreme il cuore, facendo proprie anche le melodie di eminenze sacre come Tim Hardin e Roger McGuinn, ammantandole di ulteriore bellezza. Un lavoro notturno che vive in attesa dell’arrivo del sole cocente del deserto.

Colin Stetson – Sorrow (A Reimagining Of Gorecki’s 3rd Symphony)
(52 Hz, 2016)

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Che Colin Stetson alterni coraggio e una certa dose di “follia” è fuor di dubbio. Tra i suoi allucinanti lavori in solitaria, le collaborazioni di ogni genere con i più disparati artisti e gruppi, ha dato modo di farci comprendere l’enorme bagaglio musicale e culturale che si porta appresso, oltre a dimostrarsi un sassofonista eccelso e, soprattutto, sotterraneo, capace di composizioni feroci e degradanti quanto di commenti dolci e vellutati. Con “Sorrow” Stetson si spinge oltre tutto questo e si getta in un progetto che sottolinea la strisciante pazzia del musicista americano: riproporre la Terza Sinfonia del compositore polacco Henryk Górecki, denominata “Symphony Of Sorrowful Songs”. Per farlo si avvale di una piccola orchestra del malanno: ai violoncelli Rebecca Foon (Saltland) e Gyða Valtýsdóttir (ex-múm), dietro le pelli Greg Fox (Liturgy), alle chitarre Ryan Ferreira e Greg McMurray (il primo già negli Snakeoil di Tim Berne ed entrambi parte dei folli Jerseyband), Justin Walter alle tastiere, Shahzad Ismaily (sodale di Marc Ribot e Secret Chiefs 3) ai synth, al violino Sarah Neufeld (Arcade Fire), alla voce la sorella Megan e, a coadiuvare Stetson nel lavoro “sassofonistico”, Dan Bennett e Matt Bauder (Anthony Braxton Sepstet). Con questa armata di talenti indescrivibili Stetson ci dona tre movimenti di oscura bellezza, carichi di un dolore cupo e violento ma capaci di lasciare intravedere tra le pieghe di un male passato (ma neanche tanto) uno spiraglio di luce. Troneggia la spettacolare voce di Megan, potente e dalla feroce bellezza, perfide trame black metal, tra silenzio ed esplosioni marcescenti che si alternano a evocazioni scintillanti di svariata natura, tra assurdi carichi tensivi e momenti di pace controllata. Un piccolo, straziante capolavoro.

Omar Rodriguez-Lopez – Sworn Virgins
(Ipecac Recordings, 2016)

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Torna il (fin troppo) prolifico autore delle musiche di The Mars Volta ed At The Drive-In Omar Rodriguez-Lopez col primo di una lunga serie di dischetti registrati tra il 2013 e l’anno corrente ma che vedono la luce solo ora su Ipecac Recordings: la giusta etichetta per il giusto prodotto. Tra alti (veramente alti) e bassi (sempre di qualità ma piuttosto opinabili), la sterminata discografia del chitarrista di El Paso si snoda attraverso un’infinità di generi, mantenendo sempre fissa l’attenzione sul perno della psichedelia. Negli ultimi anni il Nostro non ha nascosto in alcun modo il suo avvicinamento all’elettronica e a tutte le sue declinazioni imponibili al linguaggio rock (dimostrazione è il progetto Bosnian Rainbows) ed è proprio questa la lingua parlata in questo “Sworn Virgins”. Registrato tra il 2012 e il 2013 vede alla batteria il fenomenale Deantoni Parks, mentre ORL si cura di tutto il resto, voci incluse, il disco entra senza problemi nella parte degli “alti” di cui sopra, pur non regalandoci vere e proprie sorprese. Ciò che ne scaturisce è un bel trip electro pop-rock dalle tinte psych, semplice e lineare quanto bello. Tra notevoli allucinazioni post-punk grevi storture chitarristiche, lavori di cut up e looping degne del miglior alt hip-hop in circolazione e blues incattiviti il disco va giù che è un piacere. Un lavoro piacevole e godibile, dentro e fuori in una manciata di minuti, senza sperticate e orpelli di sorta.

Head Wound City – A New Wave Of Violence
(Vice, 2016)

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Chi meglio di Cody Votolato, Jordan Billie (entrambi membri dei The Blood Brothers), Gabe Serbian (Zu, The Locust), Nick Zinner (Yeah Yeah Yeahs) e Justin Pearson (Retox, The Locust) potrebbe parlare di “A New Wave Of Violence”? Gli Head Wound City ci avevano lasciato nel 2005 con un EP dall’altissimo tasso di furia e distruzione per poi dividere le proprie strade in milioni di altri progetti, tra l’altro tutti di un certo livello, ma tornano quest’anno a far parlare di sé quel tanto che basta per tirare fuori un disco bestiale, a dir poco. La violenza fotografata da più punti di vista ci spinge in un vortice di declinazioni da far venire le vertigini. Le grida di Billie sono, al solito, mefistofeliche e danzano su coltellate grind accoppiate a sensazioni stoogesiane (“I Wanna Be Your Original Sin”), brutalizzazioni psicotiche del verbo rock’n’roll (“I Cast A Shadow For You” col suo incedere sinuoso può causare seri problemi alla zona pelivica), stomp da dieci tonnellate dal sapore metallico (“Scraper”), infezioni hardcore (melodico, per giunta, su “Closed Casket”), una bella infornata di rifferama thrash (“Head Wound City, USA”) e, tanto che ci siamo, una sonora dose di riferimenti di matrice Ministry-ca (“Born To Burn”). Insomma “A New Wave Of Violence” ha in sé un così alto indice di godimento che, a fine ascolto, bisogna cambiar le mutande.

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