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“Antichrist Superstar”, la lunga strada fuori dall’inferno perbenista degli uomini

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Cos’è, o cos’è stato, Marilyn Manson? Un fenomeno di genere? Un rigurgito degli usi e dei costumi di un Paese? Una “controversa” icona generazionale? Una flebile façade?

Ad ognuna di queste domande si potrebbe rispondere in molti, moltissimi modi. Ma, per me, Marilyn Manson è sempre stato un bartender, di quelli che ti servono un cocktail spaziale al momento giusto e che, quando il loro locale chiude, ti fanno rimpiangere di non esserteli goduti appieno, come avresti voluto, per un motivo o per un altro. E quando riaprono e ci torni, sai che non berrai mai bene quanto hai fatto in precedenza.

Antichrist Superstar è proprio uno di quei cocktail mistici. A voler essere “poetici” alcuni dischi sono frutto di una serie di convergenze cosmiche non indifferenti: l’anno di pubblicazione (qui il 1996), il mondo che circonda gli artisti coinvolti nel progetto (la triade Warner/Reznor/White) e, ultima ma non meno importante, la situazione nel fallace universo dell’industria discografica (quando le major si interessavano alla realtà parallela che era l’underground e c’erano soldi per produrre qualcosa di qualità superiore a tutto il resto). E poi l’ispirazione.

Come post scriptum, l’elemento di cui tutti si dimenticano quando parlano di un album. Essa può arrivare da qualsiasi cosa, dalla più integerrima ed artistica convinzione fino al momento più lurido ed abbietto dell’esistenza di una persona. O da entrambe le parti, che non fa mai male. Da questo enorme puzzle metafisico prende forma il secondo album in studio dei Marilyn Manson (ricordatevi che è/era una band), seguito da una notevole dose di esperienza in mezzo a tutti i tipi di “white trash”.

Una cosa è innegabile della personalità di Marilyn Manson (questa volta parlo proprio di Lui), ossia la sua capacità di scegliere i propri collaboratori per raggiungere lo step necessario per creare ciò che alberga nella sua mente, molto più lucida di quanto in molti pensano o hanno pensato in passato.

Pochi anni prima la Interscope, etichetta al tempo casa di Eminem, Dr. Dre, Snoop Dogg e Nine Inch Nails (ora rifugio per act come Lady Gaga, fortuito alter ego misto proprio tra Manson e Madonna) prende il coraggio a ben più di due mani e decide di dare i natali a “Portrait Of An American Family”, il primo disco della creatura governata da Brian Warner.

Lo stesso Warner selezionerà come produttore Roli Mosimann, e il motivo è che il tizio in questione militava nei, già allora, leggendari Swans. Peccato che il buon Mosimann fosse un pessimo elemento, lo stesso Manson parlerà così di questo personaggio: “aveva sei o otto denti in tutto […] e poi fumava tutto il tempo”, cosa che a Brian provoca vero disgusto e, infine, riuscì a fare “proprio il contrario di quello che mi aspettavo. Pensavo che da noi avrebbe tirato fuori l’elemento più oscuro. Invece aveva cercato di smussare tutti gli spigoli e di renderci una band più rock, più pop.” Quindi ‘fanculo Mosimann, dentro Reznor. Seguono due anni di tour, sudiciume umano, ragazze coperte di carne e piscio, e droga. Tanta droga.

Quest’ultimo elemento è la colonna portante, nonché la genesi di “Antichrist Superstar”. Se da una parte Trent Reznor si ritroverà a mostrare un lato positivo della situazione che riguardava ciò che sarebbe diventato il capolavoro dei Marilyn Manson e del suo lavoro di produttore (“Quando ha iniziato a lavorare su questo disco, Brian ha considerato un sacco di vecchi produttori che avevano fatto cose più roboanti, eccessive, ma alla fine è tornato da me e mi ha detto: “Ti piacerebbe fare questo disco con Dave Ogilvie?” […] Brian aveva un’idea abbastanza precisa di quello che voleva, è uno che lavora duro e ha imparato molto da quando l’ho incontrato la prima volta. […] Il mio ruolo in questo disco era quello di creare un ambiente in cui mantenere il flusso creativo.”) dall’altra pare che il signor Warner si trovi a gestire una condizione di vero e proprio disagio durante le lavorazioni di quello che sarà il tassello più importante della propria carriera.

Il Reverendo, infatti, nella sua autobiografia “The Long Hard Road Out Of Hell”, narra vicende tutt’altro che costruttive nella fase di registrazione del disco. Si parte con una bella overdose, si continua con una quantità tremenda di inattività in studio e di una band allo sbando totale: da una parte Twiggy/Jeordie e Marilyn/Brian in piena dipendenza da cocaina, dall’altra Madonna/Pogo/Stephen con la sua “erba mistica”, il chitarrista Daisy Berkowitz nel tunnel dei suoi “scontatissimi riff hard rock”, Trent sull’orlo della furia e Dave Ogilvie dipendente da videogame e partite di hockey. Berkowitz viene messo alla porta in malo modo, non prima di aver però scritto alcuni dei pezzi fondamentali per l’economia dell’album, come Irresponsable Hate Anthem e Tourniquet.

Il punto di vista di Brian su quanto stava accadendo sembra piuttosto un modo di colorire la sua autobiografia, perché la musica parla da sé. Accade altro durante le registrazioni: Reznor si chiude in studio con il regista David Lynch, i NIN, Dave Ogilvie (che nel mentre è stato allontanato dalla produzione di “Antichrist” per far spazio a Sean Beaven) e Madonna Wayne Gacy per la lavorazione della colonna sonora di “Lost Highways” impedendo a Manson e Ramirez di entrarvici. Si genera ulteriore, ma proprio questo sentimento sembra essere la benzina perfetta per l’album. Il concetto dell’anticristo superstar, del viaggio da verme a dominatore dei palchi (e del mondo) si fa spazio nella testa dell’allora ventisettenne Brian Warner e divora ciò che rimane della sua negatività.

Lo zampino di Reznor è sempre più presente, checché ne dica il giovane Reverendo della Chiesa di Satana di Anton LaVey, prende la voglia della band di fare un disco eccessivamente estremo e la piega alla sua consapevolezza musicale. Il risultato è stupefacente (mai parola fu più azzeccata). Non ne ho proprio per le palle di definirlo un disco industrial, penso, anzi, che il miglior modo di “catalogarlo” sia “death pop”. Non vuol dire un cazzo, penserete voi, invece è proprio ciò di cui stiamo parlando.

Suoni estremi e violenti, ritornelli perfetti ma tutt’altro che zuccherini (questo avverrà molto più tardi, nella carriera di Manson, distruggendo quanto di spettacolare fatto in precedenza), gli arrangiamenti di Jeordie e di Mr. Self-Destruct rendono tutto così coeso, anche in questo marasma insensato di generi, intenzioni e disperazione, quasi a renderlo surreale. Il “fattore ambientale” fa il resto. Nel 1996 internet era agli albori e l’oscuro personaggio che si delinea nel disco è tutto ciò che riescono a vedere fan e detrattori, il tutto volto a rendere Manson una star.

Il pezzo Man That You Fear parla esattamente di questo: della paura e dell’amore che si prova per il terrore nei confronti di questo essere ignoto, immortalato nelle terrificanti fotografie di Dean Karr (che finirà tra le mani degli Slipknot del primo disco, quello più che li avvicina al pensiero dell’anticristo superstar prima del tracollo da lustrini e cazzate metal, dei mefitici Eyehategod, degli Amen e dei Mudvayne), che balla tra le nenie di “Criptorchide” e gli assalti gloriosi della title track, il tutto tenuto assieme da un fil rouge sottile ma sempre più resistente.

La coppia Reznor-Manson, pronta ad esplodere entro breve, digrigna i denti contro una spaventata Interscope, messa davanti ad un disco potentissimo da ogni punto di vista, che parla di cose scomode tramite il canto di una sirena marcescente pronta a decollare nel firmamento obnubilante del rock, che, di anno in anno, dismette i propri panni di musica pericolosa in vista di un bello smoking del cazzo.

Ma Trent non la manda a dire a nessuno: “L’Interscope non aveva intenzione di pubblicarlo. ‘Perché?’ gli ho chiesto. “Perché è un’allusione allo stupro e lo riteniamo troppo offensivo”, mi hanno risposto. “Beh, non lo cambierò. Fottetevi. Non pubblicatelo. Se non volete pubblicarlo, allora lo venderemo a qualcun altro”. È questo ciò che lo rende così interessante! Dovrebbe far incazzare i tuoi genitori, perché Manson ha un messaggio un po’ pericoloso.” Ed è esattamente ciò che rende immortale un lavoro come questo, oltre la musica, già di per sé irripetibile.

L’etichetta sembra ragionarci e così, l’8 ottobre del 1996, “Antichrist Superstar”, in tutta la sua sensibile insensibilità, arriva sugli scaffali dei negozi. Venderà più di 8 milioni di copie e oggi siamo ancora qui a parlarne.
Se non è un capolavoro questo, allora non so cos’altro potrebbe esserlo.

“Sei importante. Se l’Anticristo non farà la sua parte nella fine del mondo, non so proprio a chi potrò rivolgermi.”

Satana a suo figlio Danny Wormwood nel fumetto di Garth Ennis e Jacen Burrows “Le cronache di Wormwood”

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