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Ryley Walker – Golden Sings That Have Been Sung

2016 - Dead Oceans
songwriting / folk

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Tracklist

1. The Halfwit in Me
2. A Choir Apart
3. Funny Thing She Said
4. Sullen Mind
5. I Will Ask You Twice
6. The Roundabout
7. The Great and Undecided
8. Age Old Tale

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Era il febbraio del 1972 quando in Inghilterra vedeva la luce un album fondamentale per le generazioni a venire. Parliamo di Pink Moon, capolavoro del compianto Nick Drake in cui respira tutto il disordine generazionale di un ragazzo poco più che ventenne alle prese con un’esistenza tremendamente difficile. Schiere di musicisti, da lì a breve, avrebbero colto (o almeno avrebbero avuto piacere nel farlo) l’eredità dell’artista, abusando troppo spesso di quel nome.

A oltre quarant’anni di distanza, Ryley Walker da Rockford (Illinois) spariglia le carte dell’iconico Drake, andando ad attingere a quell’immaginifico e inarrivabile fingerpicking in cui racchiudere un mondo, il suo mondo. Non aspettatevi la nenia dedicata a una depressione forzata o tracce necessariamente escapiste , quanto piuttosto la rielaborazione di alcuni concetti e il loro sviluppo su una tabula rasa. Arrivati a un certo punto, infatti, le somiglianze e gli spunti Drake-iani, unite a quelle che richiamano lontanamente John Martyn e il Van Morrison di Astral Week cominciano a diventare solo un eco lontano e lasciano spazio al Ryley Walker artista nuovo.

A più o meno la stessa età in cui l’inglese ci lasciava, l’americano esce con Golden sings that have been sung (Dead Oceans), suo terzo album in studio. A dire la verità il ragazzone aveva già lasciato una prima scia con l’esordio All kinds of you, in cui eravamo tornati ad apprezzare un sound impressionante e inaspettato da un artista così giovane e che molti non erano più avvezzi ad ascoltare. Lo scorso anno addirittura, Primrose Green (Dead Oceans) aveva fatto gridare al miracolo Uncut e il The Guardian (un po’ meno Pitchfork), che non avevano esitato a sbilanciarsi con frasi come “Primrose Green è disorientante, fa nuova luce su modalità che pensavamo di conoscere bene” o “C’è del bello e qualcosa di ammirevole nell’insistenza di Walker a rimanere fedele al suo percorso”. Lì si presentava al grande pubblico un Ryley Walker che dimostrava di non avere paura del ritorno alle origini. Così teneramente folk da ricordare il J Mascis di Several shades of why ma con un occhio sempre strizzato a sonorità jazz votate all’improvvisazione pura, aveva saputo creare dei momenti intensissimi da genio cristallino uniti ad episodi al limite del divertissement erudito.

Prodotto da Leroy Bach (ex- Wilco) e imbevuto della solita spiritualità enciclopedica con espressioni come Halleluja, godless, I only have a Christian education, playing footsie with Jesus, hands folded in prayer sparse lungo le otto tracce, Golden Sings appare immediatamente come un disco meno frammentato del precedente grazie ad un’ossatura simile ma più sicura di prima. L’intimità del ritorno ai luoghi e agli affetti più cari è sostenuta da brani intensissimi e personalissimi come The halfwit me, Sullen Mind (a questo brano live è interamente dedicato il secondo disco dell’album) e il capolavoro The roundabout, in cui Walker riesce nell’intento di identificarsi con un luogo (Chicago nel caso specifico), trasfigurandosi nelle sue strade, nelle sue case e nelle sue persone. Il risultato, che spesso ricorda la profondità di Jim O’Rourke o la follia controllata di Roy Harper, è commovente. Nonostante nessun brano possa considerarsi un vero e proprio singolo radiofonico, Ryley Walker desidera riportare tutti ad un livello di contatto emozionale con la musica e con un certo tipo di forma canzone: l’ammaliante incedere di Age old tale o la dolcissima dichiarazione di I will ask you twice non possono che avvicinare l’ascoltatore e portarlo a porgere l’orecchio al racconto. Quello che il nostro visionario erudito ha da raccontare è come qualsiasi momento, persona, episodio della vita, seppure banale, nasconda un disegno ben preciso.

Rifuggendo le futuribili luci della ribalta (è lui stesso ad affermare che “I’m not in it for all that bullshit and I’m not interested in being a star, I mean, I’m not going to be a star”) Walker preferisce raccontare il suo qui e ora tra esplosioni cromatiche e stati d’animo positivi quasi psichedelici fondamentali per cogliere anche il lato più solitario e riflessivo dell’artista laddove esso è espressione di un furor creativo inestimabile. Come qualcuno ha detto, Ryley Walker non è un artista del nostro tempo. Il suo songwriting, che lo avvicina a un passato d’oro fa di lui un giovane profeta del folk e di Golden sings that have been sung una delle migliori uscite discografiche degli ultimi anni.

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