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27.10.2006: I Soldi Sono Finiti, un inizio che ritorna dieci anni dopo

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27 ottobre 2006. Dalla Noise Factory di Milano usciva per Otorecords uno dei dischi più importanti del rock italiano dell’ultima decade. “I soldi sono finiti” segna l’esordio dei Ministri, il gruppo milanese formato da Federico Dragogna (chitarra), Davide “Divi” Autelitano (voce e basso) e Michele Esposito (batteria) che trasforma ogni live in un’autentica scarica di energia elettrica. Un esordio che ritorna sui palchi italiani con il tour “Ministri dieci anni bellissimi”, in partenza il 18 novembre 2016.

Per la realizzazione di questo articolo abbiamo avuto l’opportunità di parlare con Federico Dragogna che ci ha raccontato qualcosa in più su quel periodo.

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Dieci anni bellissimi dei Ministri del rock italiano.

«Rappresenta un sogno che si avvera. E nella realtà i sogni che si avverano non hanno lo stesso corso dei sogni che si avverano nei film. Parte con una grande ansia. Fare un disco è un processo di entusiasmo: “ma questo è super pop, andrà benissimo!” “questo sicuramente lo passeranno in radio!”.»

«E quindi quando dopo esce, oggi come dieci anni fa, se sei “piccolo” non significa quasi niente. Il disco viene distribuito ma non lo sa nessuno. Non è che stava uscendo il disco di qualcuno famoso, che qualcuno stava aspettando. Non avevamo un ufficio stampa o cose del genere. Il disco si trovava nei negozi.»

«A Milano facevamo volantinaggio del nostro disco nei giorni. Era uscita una recensione su Rock Sound che ne parlava bene e poi basta. Facevamo i concerti, vendevamo qualcosa ai banchetti ma c’è un momento in cui dici: “E ora? Non succede più niente?”. Tre mesi dopo l’uscita del disco è arrivato l’interesse di Universal. Non era un disco di genere, non si inseriva in qualche settore, aveva dei pezzi pestati ma anche ballate.»

«Quando penso a “I soldi sono finiti” penso a quel periodo in cui ogni musicista è insicurissimo: quando si ferma l’entusiasmo e pensi che non possa succedere qualcosa. E poi succede veramente. Bisogna continuare a volere le cose» ci racconta Federico Dragogna.

Come da tradizione delle storie delle band, il trio si incontra al liceo e, insieme al tastierista Emiliano Eva – che a distanza di poco tempo lascia il gruppo -, ha dato vita al Ministro del Tempo. Da lì, grazie ai primi fan, il nome cambia in Ministri.

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Dopo “Interazioni minime in locali pubblici”, la prima demo casalinga, il produttore Alessio Camagni, che li nota in sala prove, prende in mano la situazione: pulisce il suono senza togliere però quella sana ruvidezza che contraddistingue questo album, dirige il tutto con l’obiettivo di realizzare quel primo disco dei Ministri (che all’epoca avevano la stessa età di chi sta scrivendo), quel capitolo numero uno che già aveva una forte personalità e che rappresentava una scossa decisa nel panorama indie italiano.

Un inizio particolare per una band: spesso ci vuole tempo per ingranare, mettere in luce le proprie capacità, acquisire sicurezza. “I soldi sono finiti” è speciale proprio per questo: le idee chiare già da subito, il pugno subito duro, un’urgenza di comunicare che scalpita. Fondamenta più che solide per costruire un’identità.

«E’ stato il produttore, Alessio Camagni, a decidere che Divi doveva essere la voce del gruppo. Può sembrare buffo: con la voce che ha, certo che è la voce del gruppo. Ma all’inizio cantavo pure io.» racconta Federico.

«Ci dividevamo i pezzi. Ero contento di questa decisione. Il disco è stato registrato nell’arco di un anno e mezzo, ci sono tre sessioni di registrazione che fanno suonare i pezzi un po’ diversi tra loro tecnicamente. Ci stavamo creando come band. Il fatto fondamentale è che io mi sono rotto un polso e sono dovuto stare fermo per un mese. Quando sono tornato, avevamo un concerto già fissato. Quindi ho chiesto agli altri di fare una scaletta più semplice, per via del polso.»

«Prima facevamo cose con un sacco di assoli, mezze prog, complicatissime. Ho chiesto di fare un paio di cover facili: “Kick Out The Jams” nella versione dei Rage Against The Machine e “Ace Of Spades” dei Motorhead. Abbiamo scoperto che funzionavamo molto meglio così, invece di essere tutti supertecnici. Siamo tornati in studio e abbiamo semplificato tutto: distruggendo assoli, parti… Tutto ciò grazie al fatto che mi si era rotto il polso» continua Federico, ricordando quei giorni.

Come i Verdena nel 1999 con “Verdena”.
Come Le Luci della Centrale Elettrica nel 2008 con “Canzoni da spiaggia deturpata”.
Come i Fast Animals And Slow Kids nel 2011 con “Cavalli”.

Il vaso di Pandora della cosiddetta scena “indie” che ogni tanto si apre e rivela gruppi e personaggi pronti a ribaltare le sorti della musica in Italia, già dal primo passo. Qualcosa di nuovo che si fa spazio.

E così nel 2006, vicino all’eclettico “Toilette Memoria” di Umberto Maria Giardini, alle sperimentazioni di “After Dark, My Sweet” dei Julie’s Haircut, allo screamo di “New Liberalistic Pleasures” dei The Death Of Anna Karina, al math rock/noise di “Stella” degli Uzeda, al pop rock di “Dovessi mai svegliarmi” dei Numero6, appare questo concentrato di rock limpido e autentico.

Una novità, uno schiaffo per via dell’attitudine. Per via dei contenuti. Per via di quell’alone di mistero che circonda ogni strofa. Per via del sudore che cola da ogni nota. Per l’azzardo di tre ragazzi poco più che ventenni. Giovani. Incazzati.
Un disco che è un ritorno alle origini del rock e al tempo stesso un esperimento. Una miccia che si accende.

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“I soldi sono finiti” è una chiara provocazione, musicale e non. Quella moneta da un euro inserita sopra la copertina dell’album (realizzata da Folp). La nota “Spese della produzione dell’album” all’interno del libretto. Una sfida contro la crisi discografica (nel 2006 le vendite dei dischi sono crollate del 11,4% rispetto all’anno precedente secondo la FIMI), i costi e i sacrifici che porta la realizzazione di un disco. Perché la passione costa cara e per portarla avanti è necessario un certo coraggio e una certa sfrontatezza per affrontare persone e istituzioni più grandi di noi. Coraggio e sfrontatezza che ai Ministri non mancano. Neanche nella musica.

Spontaneità, semplicità, rabbia, ma anche inventiva e una lucida visione di una società che potrebbe essere tranquillamente la nostra, dieci anni dopo. E soprattutto l’amore per ciò che si fa, per la musica.

«Quell’euro in copertina è servito molto perchè è arrivata l’Ansa che ha fatto uscire la notizia del disco. Era già qualcosa: “ci sono quelli lì che hanno fatto questa stranezza”. Gli euro li abbiamo incollati noi. Ho sempre avuto delle idee che hanno portato ad un lavoro “operaio”. Una volta ricevuti i dischi stampati, abbiamo tirato fuori i libretti, incollato gli euro uno a uno e poi abbiamo portato tutto a incellophanare».

“I soldi sono finiti” si apre con il rumore di alcune monete lasciate cadere in un cappello (monete che sono state davvero lasciate cadere in un cappello microfonato durante le registrazioni), una fisarmonica (suonata dalla madre di Camagni), il sottofondo fatto di rumori registrati ai una festa di filippini in corso vicino allo studio e, come dicono loro, “il riff di una Fender Mustang sverniciata”.

E con quel disilluso grido di furore che è “Non mi conviene puntare in alto”, traccia d’apertura che mette subito in chiaro le cose sin dall’inizio: da qui parte qualcosa di esplosivo, schietto, che non può essere fermato. Chitarra sporca, batteria pestata, basso martellante e una voce poliedrica in grado di passare in poco tempo dalla melodia allo scream, venata di veleno e ruggine.

Quattro minuti circa di elettricità che terminano quasi com’erano cominciati: una Fender Mustang sverniciata, la chitarra e l’armonica di Effe Punto, alias il loro collaboratore live Filippo Cecconi (seconda chitarra e tastiera) fino al 2009, la festa asiatica in sottofondo e una malinconica pioggia di monete che cade dentro un cappello. Tutti elementi che faranno da intermezzo tra un brano e l’altro per tutta la durata del disco, una pausa alla fine di ogni pezzo, ma anche un collante per dare continuità al tutto, senza una vera e propria sosta.

L’intro ansiogeno e cupo della title track interrompe il tintinnio delle monete ed esplode in uno dei pezzi più ironici ed inquietanti dell’album caratterizzato soprattutto dalla voce su di giri di Divi che quasi spaventa, un ruggito sarcastico che prosegue poi con “I nostri uomini ti vedono”, brano dai ritmi serrati e indiavolati, per poi “placarsi” con “I muri di cinta”, uno dei pezzi più morbidi del disco ma sempre molto intenso che dimostra la capacità della voce di Divi di adattarsi a cambiamenti del genere, di passare a tonalità più distese ma sempre pulsanti di rabbia.

Arriva una decisa virata punk rock poi con “La sacra quiete della sera”, quei cori grotteschi (quello che dice “la droga fa male” in quel modo è Michele), quell’aggressività nel canto mischiata ad un’ironia pungente.

L’ira comincia a ribollire sorgendo dal dolore e da quella chitarra esausta che cerca di riprendere fiato di “La mia giornata che tace” e di “Le mie notti sono migliori dei vostri giorni”, cupa e acida ballata dalla seconda voce distorta (di cui esiste una versione alternativa, un provino del 2005, con un video girato in super 8:

Si alzano i toni con “Lo sporco della Grecia” e “Il sangue dal naso”, pezzi introspettivi ma che rappresentano un equilibrio perfetto tra la pesante carica rock e atmosfere più riflessive.
Le distorsioni riprendono con “Piano per una fuga” in cui la chitarra e la voce di pari passo aumentano d’intensità e forza, sporcandosi di più, in bilico tra malinconia e rabbia.
Il disco scoppia di nuovo ne “Il Camino de Santiago”, brano bieco e tragicomico, e infine nel vortice di violenza della traccia di chiusura, “Abituarsi alla fine”.

«Urgente. E’ l’aggettivo più usato nelle recensioni di questo disco. “Guardi prof, devo andare al bagno perché è urgente”. Ecco, così» ride Federico.

In questa selezione di dodici brani qualcosa rimane fuori, qualcosa verrà aggiunto in seguito nella riedizione del 2011 curata dalla Universal in cui compaiono tre brani dall’EP “La piazza” (“Fari Spenti”, “La piazza” e “Meglio se non lo sai”) che anticipa nel 2009 il disco “Tempi bui”.

E nella versione di iTunes c’è anche lei, quella canzone misteriosa, enigmatica, brutale, feroce: “Il mio compagno di stanza” che si riferisce alla convivenza di etnie diverse in un palazzo di Via Imbonati a Milano, un immigrato e un italiano in parallelo che arrivano alla stessa conclusione: ossia che l’unico modo di risolvere la distanza tra loro è l’intolleranza.

Un discorso esplicito sull’egoismo che cova ognuno di noi, due personaggi reali anche se magari dalle idee non concordi con le nostre e con quelle del gruppo. Ma quel “divento violento” rischia di essere frainteso e quindi la band decide di non inserire il pezzo in nessun album ufficiale.

Nella riedizione del 2009 (sempre per Otorecords) invece non ci sono altri brani e neanche monete in copertina, ma pezzi di quelle giacche napoleoniche che da subito sono state uno dei simboli del gruppo, trovate in un mercatino di Amsterdam, cambiate in seguito.

Mille pezzi per l’esattezza, per mille copie. E da lì il “In mille pezzi tour”.

«Io sono stato sempre un collezionista. Sono cresciuto con Freddie Mercury e il metal nell’adolescenza, quindi tutte le giacche, le casacche, le camicie con lo sbuffo mi divertono. Sono un po’ glam su questo. Compravo sempre giacche del genere in giro per mercatini.»

«Nel 2005 a Amsterdam, ben prima dell’uscita del disco, le abbiamo trovate in una bancarella che ne aveva tipo sei o sette. L’idea era usarle per una foto singola. Ma un anno e mezzo dopo, al MEI di Faenza abbiamo deciso di suonare con le giacche napoleoniche per farci notare. Abbiamo ricevuto più attenzione del solito. Da lì ci siamo detti: “ce le teniamo sempre?”. Sì, ce le teniamo sempre.»

«Ma erano pesantissime, di lana cotta. Un disastro. Oltre a sudare, dovevi portarle alla lavanderia apposta per i costumi teatrali. Si sarebbero rovinate per sempre lavandole a casa. “Amiamo i nostri vestiti, nessuno potrà mai levarceli”: era una profezia, non c’erano ancora le giacche. Non sapevamo che sarebbe successa questa cosa» ci racconta sempre Federico.

Altro simbolo del gruppo sono le irriverenti locandine dei concerti, realizzate per ogni concerto. Dalle prime false pubblicità progresso a quelle dei giorni nostri, sempre molto persuasive e geniali.

«Considero ogni concerto un’occasione. Quindi mi sento sempre come se stessi facendo troppo poco, anche allora. E’ poco dice “c’è il concerto” e basta. Quindi abbiamo deciso di fare una locandina diversa, un progetto grafico diverso per ogni concerto. All’inizio facevo cose che divertivano gli amici che venivano a vederci: fotomontaggi con Michele, noi nell’Antico Egitto… cose matte. »

«E’ un modo per raccontare una band in una maniera diversa, al di fuori delle canzoni. Il patto era di farle sempre. E se avessimo saltato un concerto, il Dio dei concerti si sarebbe scatenato contro di noi (ride NdR).»

«Avrò fatto seicento locandine. Il mio punto era farle sempre più belle. Allora ho cominciato a spendere dei soldi per le locandine, intere giornate, comprando costumi o vestiti. Una delle voci in bilancio è “fare le locandine”» ci rivela Federico.

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Un esordio così determinato, deciso, tosto. Convincente. Il carattere già con un’impronta forte. Qualcosa che non capitava da tempo.
Sfrontato, intelligente, furioso: “I soldi sono finiti” è un connubio tra un cantautorato puro e furente e un rock genuino ma stravagante.

La scelta di usare sempre, fin da subito, l’italiano: perché quello che deve essere svegliato a colpi di rock è il nostro Paese.
Un disco che ancora oggi ha un’eco importante, sia per quanto riguarda lo stile, sia per quanto riguarda i testi. Un disco che è come una droga dopo dieci anni: lo ascolti una volta e ti rimane attaccato alla pelle, lo riascolti e lo riascolti di nuovo.

Un lavoro essenziale per il rock in Italia che ha gettato le basi per un gruppo semplice ed energico, con un’empatia insolita con il pubblico.
L’inizio di qualcosa che brucia, tra fisarmoniche e feste in sottofondo. Un inizio che ritorna a breve su dodici palchi italiani, dodici come i brani del disco.
La voglia di tre ragazzi di divertirsi, svegliando coscienze e scuotendo anime.

“I soldi sono finiti”. Se vuoi fare davvero musica, la fai. Anche se ciò che ne ricavi è quell’euro, quell’unico euro.

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Perché a distanza di dieci anni dovremmo ricordarci di questo disco? Per tutto questo. Per l’onestà. Per la naturalezza. Per non essere un disco artificoso. Per le opinioni sincere urlate ai quattro venti in un mondo che da tanto tempo cerca di soffocare i giovani. Per le sonorità scomposte. Perché è ciò di cui la musica e tutti noi abbiamo bisogno. Anche ora.

Un esempio valido di come il rock italiano, se si impegna, non ha nulla da invidiare all’estero.
Qualcosa che si spezza, che rompe uno schema con un colpo fin troppo deciso.
Un mattone pesante e forse inconsapevole del rock made in Italy.
Buon compleanno, “I soldi sono finiti”.

“Di Ministri si parlerà poco, del resto molto” scrive Federico sul blog “Parola di Ministri” in un post datato 22 settembre 2008.
Forse non così poco.

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