E niente. Anche a sto giro concept album, stavolta con il vento come comune denominatore, e ancora una volta un centro pienissimo per Murubutu.
Appare quindi sostanzialmente inutile spendere troppe parole per descrivere il IV album da solista del professore reggiano, primo perché di lemmi come da prassi ce ne metta già una bella quantità lo stesso Murubutu, secondo perché questo è un disco profondo e complesso, con 12 tracce (più introduzione e conclusione) che sono altrettanti racconti e che quindi meritano di essere ascoltati e vissuti direttamente, senza filtri e/o sinossi.
La vera novità rispetto ai precedenti lavori risiede nelle strumentali decisamente più rotonde ed orecchiabili, addolcimento che giova all’ascolto in quanto rende più avvicinabile e digeribile un prodotto che, come nel caso appunto del precedente “Gli ammutinati del Bouncin’ ovvero mirabolanti avventure di uomini e mari”, tende (purtroppo?) a rimanere relegato a bordo pista.
Altra novità rispetto al passato sono i featuring, meno vicini alla quotidianità ed alla cerchia di amicizie, ma selezionati, azzardo, in base alla capacità di saper scrivere con classe, stile e soprattutto fuori dai canoni italici. E Rancore in “Scirocco”, Dargen D’Amico & Ghemon in “Levante” confermano appieno la bontà sia della scelta fatta che delle (da me presunte) motivazioni alla base di tale selezione.
Null’altro da aggiungere. Se non che Murubutu con questo ultimo eccellente lavoro ha alzato e superato una volta ancora la fantomatica asticella. E se il prossimo disco sarà migliore di questo, beh, come minimo candidatura al premio Nobel per la letteratura.