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Il Diario Dell'Antigenesi

Wakrat, Zeal And Ardor, Raspail: Diario Dell’Antigenesi #32

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Questa rubrica vuole essere un diario, una raccolta di pensieri, emozioni e suggerimenti su ciò che ci colpisce dei gruppi emergenti. Demo, EP, first release, MP3, tracce singole, bandcamp, myspace, e-mail. Tutto fa brodo e armonia per riempire queste pagine con nomi di progetti sconosciuti o anomali. Ci piace semplificare il tutto e mettere in collegamento realtà, persone e pensieri. Un percorso anomalo e brutale che non tiene conto delle tradizioni e del giudizio conforme. Come un’abiura della genesi, vogliamo prendere strade evolutive e di pensiero anarchiche e indipendenti, per seguire la nostra ricerca di forme artistiche nuove, che muovono i primi passi nel caos della creatività.
Se volete segnalare il vostro materiale potete mandare una mail a: impattosonoro@gmail.com . Vi avvertiamo che tutto ciò che ci arriverà passerà esclusivamente per la scimmietta pesca voti. Siete avvertiti.

Wakrat – Wakrat
(Earache, 2016)

Wakrat

Probabilmente a Tim Commerford l’assenza compositiva della sua band principale non sta bene affatto. Già l’anno scorso il bassista dei Rage Against The Machine si era staccato dai suoi compagni per dare vita al progetto Future User all’interno del quale sfogava tutta quella voglia di prog ed elettronica che gli era rimasta ferma nelle dita per tutto il corso della sua carriera musicale. Con il progetto Wakrat, completato da Mathias Wakrat e Laurent Grangeon, invece i pruriti che vengono sfogati sono di tutt’altra natura. Qui la materia in questione è quella della rabbia, dell’odio intinto in un vorticoso turpiloquio sotto forma di schegge impazzite, nove per la precisione. Non a caso ad interessarsi all’oggetto in questione è proprio quella Earache che è stata casa ideale delle migliori realtà del variopinto mondo della musica estrema. A suo modo l’album omonimo dei Wakrat è estremo. Estremo nei contenuti lirici, estremo nella ferocia esecutiva, estremo nello sbattersene i coglioni delle mode del momento, o anche del proprio passato. Non so quanti fan(atici) dei RATM che ogni giorno pregano il loro beneamato Dio Zapatismo in attesa del ritorno di Zack de la Rocha tra le fila della band giusto in tempo per dare alle stampe un disco di plastica (non me ne vogliano i Rage, io li amo da sempre, ma il futuro temo sia quello) siano a conoscenza di questo progetto, in tal caso farebbero meglio a tendere l’orecchio. Perché della rabbia primeva qui c’è tutta la sostanza politicamente scorretta di cui Zack è padre. Certo, il livello lirico non sta minimamente da quelle parti, ma nessuno lo pretenderebbe da Tim (né avrebbe senso che così fosse), ma ciò che salta subito all’orecchio è la bravura del bassista anche nelle vesti di cantante. Nei nove brani c’è punk da vendere, attitudine hardcore da salivazione multipla, suoni distruttivi a mazzi e ferocia. Tanta ferocia. Ci troviamo davanti alle spettacolari digressioni ferali di “Nail In The Snail”, ad un attacco senza peli sulla lingua di “Generation Fucked”, alla furia bruciante che deflagra in “La Liberté Ou La Morte” che potrebbe non sfigurare dalle parti dei Refused cantati da un Greg Puciato voglioso di grunge, fa capolino anche un bel po’ di badreligionismo spintissimo su “The Thing”, che cazzo potremmo volere di più? Un bel nulla (magari quel leggerissimo tocco di Tool sulla bastarda “Knuckelhead”), perché questo dischettino è perfetto così com’è. Se vi stanno girando i coglioni per un qualsiasi motivo, “Wakrat” fa per voi. Suonatelo forte.

Zeal And Ardor – Devil Is Fine
(Autoproduzione, 2016)

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Ogni qualvolta sento parlare di “nuove promesse” del black metal le mie antenne si drizzano e parto subito alla ricerca della scoperta in corso. Non sempre, però, finisco con il trovare la pentola di monete al fondo dell’arcobaleno. Il più delle volte mi imbatto in copie delle copie, modaioli in cerca di attenzioni e coccole, e svariati altri tipi di cianfrusaglie umane di questa risma. Questa volta ciò che ho trovato non fa parte di nessuna delle categorie di cui sopra ma, comunque, ha finito per deludermi. Manuel Gagneux, aka Zeal And Ardor, auto etichetta il suo lavoro come “African american spirituals, blues and black metal”. E detta così ti attira sin da subito. Il progetto nasce per scherzo, e già questo mi dà i nervi. Non perché io voglia per forza porre un’aura di spiritualità intoccabile sul discorso “black metal” e/o “metal estremo” (come invece fanno molti pignoli imbruttiti dal genere estremo che sono ancora qui a menarci il torrone su quanto siano “fighette” i Deafheaven o su quanto fossero fighi i primi Amebix quindi i Tau Cross fanno schifo. Crescete e fatevi furbi), quanto più perché uno scherzo è rimasto. “Devil Is Fine” nasce da un concetto interessante, ossia quello di unire le forme di ribellione del black delle origini e dei canti degli schiavi afroamericani. Peccato che poi, a conti fatti, la musica pecchi di assenza di profondità, e di occasioni, date le premesse, ce ne sarebbero. Un’accozzaglia indefinibile di suoni mixati in malo modo (e non sto parlando di mix finale dei brani, badate bene), dalle chitarre ferali dei primi Darkthrone che fanno da tappeto a canti sentiti che di black hanno l’anima più soulful, ad inutili smitragliate di batteria, sintomi hip hop mal messi, pallide prove di inserire il Delta Blues tra le fredde foreste della Norvegia, spettri manouche che si perdono tra grida poste più che altro a caso. L’idea è buonissima, qualche pezzo è persin bello (“Come On Down” su tutte è l’unica che mi ha colpito in maniera positiva), ma, oltre all’anima, ci va anche una ricerca sonora (i Liturgy sono un ottimo esempio a cui guardare), altrimenti è un prodotto buono per il solo mondo dell’internet.

Raspail – Dirge
(sickmangettingsick.records, 2016)

Raspail

Le tre entità denominate Israfil, Ianus e Zeno, fuse assieme, ne formano una più grande che porta il nome di Raspail. Lascio a voi l’onore di scoprire l’identità del trio, lasciate invece che vi illustri, in maniera più o meno consona, ciò che accade all’interno del quadro tremendamente bello chiamato “Dirge”. Difficilmente altrove sono riuscito a trovare l’unione di universi musicalmente così distanti seppure tanto legati a livello molecolare da sembrare uno solo. Ma non è solo una sensazione di unione quella che si dipana tra le otto tracce che formano l’album, è una certezza assoluta. La rarefazione chitarristica e la ferale disposizione vocale si avviluppano formando un bozzolo lucente laccato di doom, sintomi shoegaze, una nervatura black metal e un’impenetrabile e dissacrante tendenza death. Tra i solchi del disco camminano fantasmi di una wave epica ed assoluta, su “We Should Not Grieve” il death si impone feroce nella calma fallace delle chitarre di “Ver Sacrum”, allucinazioni droneggianti punteggiano “The Wanderer” mentre formano l’esoscheletro della tensione black di “Vesevo” imperlata di lontane grida funeree mentre la title track annega in un lontano mare di nebbia elettrica e si erge a momento più alto dell’intero lavoro, funesta com’è, con una predisposizione all’eterno dolore e ad una pace mai raggiunta. Un inizio sofferto, quello dei Raspail, ma unico nel suo genere. Nuovo senza esserlo, antico senza darne l’impressione.

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